Spotify…il male…

Ah, Spotify. Il nome suona innocuo, no? “Spotify”. Sembra un posto dove vai a fare yoga o a trovare illuminazione spirituale. E invece no! È il male. È Satana in streaming ad alta (!?) qualità. Ma perché ce l’ho con Spotify? Perché è la fine della musica. È come il McDonald’s della musica: tutto è accessibile, ma niente ha un vero sapore.

Quando ero giovane… sì, lo so, tutti iniziano con “quando ero giovane”, ma lasciatemi spiegare! Quando ero giovane, comprare un disco era un rito sacro. Si andava al negozio, si passavano ore a sfogliare le copertine, si annusava quell’odore di vinile e polvere – un odore che ti diceva: “Questa è arte, non un algoritmo”. Poi portavi il disco a casa con la stessa cura con cui trasporteresti un cuore per un trapianto. Lo mettevi sul giradischi, abbassavi la puntina, e… magia!

Adesso? Adesso la gente scopre la musica premendo un pulsante mentre ordina un cappuccino al bar. Voglio dire, come fai a capire Leonard Cohen mentre sorseggi un latte macchiato con latte di avena? Non è musica, è rumore di sottofondo per le tue crisi esistenziali annacquate.

E poi gli algoritmi. Gli algoritmi! Avete idea di quanto siano subdoli? Ti dicono cosa ascoltare. “Se ti piace Bob Dylan, potresti apprezzare questo tizio che suona l’ukulele in una cantina in Norvegia”. Ma chi sei tu, Spotify, per dirmi cosa ascoltare? È come se un robot venisse da me e dicesse: “So tutto di te”. No, non sai niente! Non sai che mi piace ascoltare la Carmen mentre mangio cornflakes alle tre di notte.

E poi il male assoluto: le playlist. Ah, le playlist! “Relax”, “Study”, “Workout”. Ma la musica non è un deodorante con profumi diversi per ogni momento della giornata! È una forma d’arte, non un menù da fast food. Voglio ascoltare Beethoven durante un attacco di panico, non una playlist chiamata “Calm Vibes”.

E non parliamo dei musicisti. Sapete quanto guadagnano per ogni stream su Spotify? Un centesimo. Un centesimo! Quando ho sentito questa cifra ho pensato: “Ok, è uno scherzo”. Ma no, è vero. Beethoven guadagnerebbe più suonando il piano in un bar per ubriaconi che su Spotify. E poi si lamentano che la musica classica sta morendo. Certo che sta morendo! Non si può competere con il remix techno di un gatto che miagola.

Spotify ha preso la musica – che è passione, fatica, lacrime, sudore – e l’ha trasformata in un buffet all-you-can-eat di mediocrità. E noi? Noi ne siamo complici. Perché è comodo. È tutto lì, subito, senza fatica. Ma sapete cosa succede quando tutto è facile? Diventiamo pigri. E quando diventiamo pigri, smettiamo di cercare la bellezza.

E se non bastasse questo, ecco l’ultima genialata: le canzoni finte. Sì, avete capito bene: false. Tracce create appositamente per riempire le playlist, senza un artista vero dietro. No, non sto scherzando. Hanno trovato un modo per monetizzare anche il nulla. È come venderti l’aria in scatola, ma con un po’ di riverbero e un titolo come “Ocean Serenity.”

Creano brani composti da qualche accordo generico – una melodia che potrebbe essere stata suonata da un tizio con la chitarra in un autogrill alle tre di notte – e la mettono in una playlist chiamata “Focus Time” o “Cozy Winter Vibes.” E la gente la ascolta, inconsapevole del fatto che non è nemmeno musica vera. È musica sintetica. È come mangiare un hamburger vegetale e pensare che sia filetto di manzo argentino.

E poi gli “artisti” dietro queste tracce… ma quali artisti? Non esistono! Sono pseudonimi inventati da Spotify o da aziende terze per risparmiare sui diritti d’autore. È un’economia del vuoto, una truffa in loop infinito. Hanno preso l’idea del “musicista” e l’hanno ridotta a un avatar generato al computer. Nessuno soffre per scrivere queste canzoni. Nessuno si strugge. Nessuno vive il dramma interiore che produce un capolavoro. È tutto un copia e incolla emotivo.

La parte migliore – se possiamo chiamarla così – è che tutto questo serve per ingannare noi. Perché più Spotify riempie le playlist di musica fasulla, meno paga gli artisti veri. È un sistema progettato per spremere il massimo profitto da ogni nota. Hanno letteralmente industrializzato l’assenza di ispirazione.

E voi direte: “Ma chi se ne accorge?” Certo, nessuno se ne accorge! Perché queste tracce non devono essere memorabili, devono solo stare lì, sullo sfondo, come la musica d’ascensore in un centro commerciale deserto. Il loro unico scopo è mantenere attivo lo streaming, come un’auto lasciata accesa al semaforo.

Quindi ora non solo Spotify è il McDonald’s della musica, è anche una specie di Truman Show per le nostre orecchie. Ci fa vivere in un mondo dove crediamo di ascoltare arte, ma in realtà ascoltiamo solo un algoritmo che ci sussurra dolcemente: “Non pensare, non cercare, continua a fare play.”

Sapete cosa mi preoccupa davvero? Che un giorno ci abitueremo a tutto questo. Che non saremo più capaci di distinguere una canzone vera da una finta. E a quel punto, la musica come la conosciamo – quella vera, quella che ti strappa il cuore e te lo rimette al contrario – sarà morta davvero.

E io? Io continuo a usarlo. Certo, è comodo. Ma lo odio. Lo odio con la stessa passione con cui amo… Oh guarda, la mia playlist “Woody’s Neurotic Jazz Favorites” è finita. Devo trovare qualcos’altro.