La musica è una delle forme d’arte più effimere e, al tempo stesso, più durature. Un suono esiste solo nell’istante in cui viene prodotto, eppure un’opera musicale può sopravvivere per secoli, rendendo immortale il suo creatore. Ma cosa significa scrivere musica di fronte alla consapevolezza della morte? Quanto il timore della fine influenza la creatività, e quanto il desiderio di lasciare un’eredità immortale spinge i compositori a scrivere fino all’ultimo respiro?
L’agonia della creazione: tra urgenza e paura
Molti compositori hanno vissuto l’arte come una battaglia contro il tempo, un duello con la morte che si avvicina inesorabile. Scrivere un’ultima opera significa affrontare il dubbio angosciante: sarà all’altezza della mia eredità? Non è solo il timore dell’incompiutezza, ma la paura ancora più profonda di scrivere qualcosa di definitivo e, allo stesso tempo, non all’altezza della propria stessa leggenda.
Beethoven affrontò questa paura in modo viscerale. Nel Testamento di Heiligenstadt (1802), scritto quando la sordità stava diventando irreversibile, confessò il desiderio di suicidarsi, ma dichiarò che solo la musica lo tratteneva dal farlo. “Soltanto la mia arte mi ha trattenuto. Mi sembrava impossibile lasciare il mondo prima di aver dato tutto ciò che sentivo germogliare dentro di me.” Qui si coglie la tensione fondamentale tra creazione e morte: comporre non è solo un atto artistico, ma un atto di resistenza contro l’annullamento del sé.
Eppure, la consapevolezza della fine non è sempre un motore, a volte è una paralisi. Ci si chiede: è meglio non scrivere nulla piuttosto che lasciare un testamento indegno? Alcuni compositori hanno vissuto questo timore in modo profondo. Brahms, ad esempio, dopo aver scritto la sua Quarta Sinfonia (1885), temeva di non riuscire più a superarsi e dichiarò di voler smettere di comporre. Anche Maurice Ravel, afflitto da una malattia neurologica, sentiva che la sua mente era piena di musica che non riusciva più a trascrivere, prigioniero di una consapevolezza atroce.
L’opera incompiuta: il silenzio che diventa immortale
La morte può interrompere brutalmente il processo creativo, lasciando dietro di sé un frammento di qualcosa che non sarà mai compiuto. Alcune di queste opere incompiute sono diventate leggende, quasi più potenti di un’opera intera: la Nona Sinfonia di Schubert, il Requiem di Mozart, la Decima Sinfonia di Mahler. Il loro fascino sta proprio nell’irrisolto, nel mistero di ciò che avrebbero potuto essere.
Mahler, ossessionato dalla superstizione che nessun compositore potesse superare la propria Nona Sinfonia (poiché Beethoven e Bruckner si erano fermati lì), si sforzò di ingannare il destino non numerando la sua Das Lied von der Erde come Sinfonia. Ma quando poi scrisse la Nona, morì prima di completare la Decima. Il destino, forse, si era preso la sua rivincita.
Scrivere un’ultima opera è come camminare su una corda tesa sopra l’abisso: c’è il desiderio di lasciare qualcosa di definitivo, ma anche il terrore che quel qualcosa sia un fallimento.
Il messaggio di Baden-Powell e il destino del compositore
Questa ansia dell’ultimo atto non appartiene solo ai compositori, ma anche a chiunque affronti la propria mortalità con lucidità. Un esempio significativo ci viene dall’ultimo messaggio di Robert Baden-Powell agli scout, in cui cita Capitan Uncino di Peter Pan:
“Cari Scouts, se avete visto la commedia Peter Pan vi ricorderete che il capo dei Pirati ripeteva ad ogni occasione il suo ultimo discorso, per paura di non avere il tempo di farlo quando fosse giunto per lui il momento di morire davvero.”
Uncino, come il compositore, teme che ogni impresa sia l’ultima e vuole assicurarsi di lasciare un segno. Ogni creazione potrebbe essere il suo testamento finale, e questo porta a una profonda esitazione. Se l’ultima opera deve definirlo, deve essere perfetta.
Si scrive per paura della morte o per speranza d’immortalità?
Forse la musica è l’unico modo che l’uomo ha trovato per esorcizzare la propria caducità. Ogni compositore sa che il tempo è un avversario invincibile, ma la sua opera può sfuggire alla polvere, attraversare i secoli, diventare memoria eterna. Bach, Mozart, Beethoven: tutti morti, eppure così presenti.
Si scrive musica per paura della morte, per non essere dimenticati. Ma forse, più ancora, si scrive perché, nel momento in cui la musica suona, la morte non esiste.
Per i compositori che scrivono musica per il cinema, la sfida dell’eredità artistica assume una dimensione diversa ma altrettanto cruciale. A differenza dei compositori classici, che creano opere autonome, i compositori di colonne sonore fanno parte di una produzione più ampia, in cui la loro musica è al servizio del film anziché esistere come opera indipendente. Questa subordinazione a un altro medium rende la scelta dei progetti fondamentale per plasmare la loro carriera.
Un compositore di musica da film è, in molti modi, un impiegato: il film non gli appartiene e il suo compito è quello di valorizzare la visione del regista. Tuttavia, la sua carriera è definita dai film a cui sceglie di collaborare. Il successo di un film spesso determina il riconoscimento e le opportunità future per un compositore, rendendo ogni scelta un passo decisivo.
Così come un compositore classico può esitare prima di scrivere la sua ultima opera, sapendo che potrebbe essere il suo testamento finale, un compositore cinematografico deve essere cauto nel legare il proprio nome a un progetto che non sia in linea con la sua sensibilità artistica. Nessuno vorrebbe che il proprio ultimo lavoro fosse ricordato come parte di un brutto film. In un’industria in cui la percezione e la reputazione sono fondamentali, ogni progetto può definire la traiettoria di una carriera.
Dunque, scegliere il film giusto non è solo una questione di stabilità economica, ma anche di preservare la propria voce artistica, evitando che venga soffocata dalla mediocrità. Dopotutto, nella musica da film, come nella vita, non si può mai sapere quale sarà l’ultimo lavoro.