Nel corso degli ultimi anni ho scritto più volte sull’intelligenza artificiale applicata alla musica. Inizialmente, la mia posizione era piuttosto ottimista: pensavo che la creatività umana, nella sua complessità emotiva, culturale e personale, fosse un elemento difficilmente replicabile da una macchina. L’AI poteva forse affiancarci, supportarci in alcuni compiti tecnici o organizzativi, ma non sarebbe mai stata in grado di essere creativa nel senso più profondo del termine.
Col passare del tempo, però, questa opinione è cambiata radicalmente.
Non è cambiata tanto perché la macchina è diventata “più creativa”, ma perché mi sono reso conto che l’intelligenza artificiale si sta sviluppando e migliorando alimentandosi di opere creative umane, spesso protette da copyright, in modi tutt’altro che trasparenti. I modelli di AI generativa sono allenati su enormi quantità di dati — musica, testi, immagini — spesso raccolti senza il consenso esplicito degli autori o degli aventi diritto. Questo sposta il discorso: non è più solo questione di concorrenza tra esseri umani e macchine, ma di utilizzo indiscriminato e legalmente discutibile del nostro lavoro creativo per educare l’AI.
Diverse piattaforme che molti di noi usano quotidianamente, come WeTransfer, SoundCloud, ma anche Spotify, Google Drive e altri servizi cloud, stanno aggiornando le loro politiche. In modo spesso poco chiaro e con linguaggio volutamente vago, si stanno riservando il diritto di utilizzare ciò che carichiamo per “migliorare i loro servizi” — che in molti casi significa contribuire ad addestrare l’intelligenza artificiale.
In pratica: se vuoi usare il servizio, devi accettare che la tua musica, le tue idee, i tuoi demo vengano dati in pasto all’AI.
E ora, un altro passo preoccupante: l’ingerenza politica.
Un articolo pubblicato su Wired (link qui) mostra come negli Stati Uniti — una delle nazioni più influenti nel mondo tecnologico — si stia discutendo di eliminare il copyright o di ridurne drasticamente il potere per “non ostacolare il progresso dell’intelligenza artificiale”. In altre parole, ciò che fino a ieri veniva tutelato come diritto d’autore, oggi viene visto come un ostacolo tecnico da rimuovere.
Nel video del canale Nebula/YouTube “How AI Will Destroy Copyright (and How We Save It)”, viene spiegato chiaramente quanto la questione sia sistemica: non è una deriva etica, è una strategia. Alcuni dei giganti tecnologici stanno spingendo per un mondo in cui tutto sia disponibile per il consumo delle AI — testi, immagini, musica — e in cui i creativi perdano qualsiasi controllo sulle proprie opere.
Non è solo una nuova “innovazione tecnologica”
Quello che non possiamo più permetterci di fare, oggi, è condividere quell’ottimismo – o, per alcuni, rassegnazione – che ha accompagnato ogni ondata tecnologica del passato. Molti colleghi, anche in buona fede, continuano a ripetere che “si tratta solo dell’ennesima evoluzione tecnologica. Abbiamo già affrontato i sintetizzatori, le drum machine, i campionatori, la produzione in home studio… e siamo sopravvissuti”.
Ma questa volta è diverso. Perché stavolta non si tratta di uno strumento al servizio del musicista. Si tratta di una macchina che si nutre di milioni di opere senza compenso, senza trasparenza, senza consenso. E con l’appoggio di governi e multinazionali, rischia di distruggere le fondamenta stesse del nostro lavoro: il diritto d’autore, il riconoscimento dell’unicità, la sostenibilità della professione artistica.
È vero: la storia della musica è costellata di svolte tecnologiche. L’organo a canne, l’organo Hammond, i sintetizzatori, i campionatori, le drum machine, i virtual instruments, le Digital Audio Workstation, la distribuzione digitale via MP3, lo streaming… Ogni innovazione ha portato con sé nuove opportunità, ma anche profonde crisi.
Ogni volta, una figura professionale veniva spazzata via.
L’orchestratore, il turnista, il fonico, il produttore discografico, l’etichetta indipendente, il distributore fisico.
Ma in nome della “democratizzazione”, ci siamo convinti che la creatività diventasse più accessibile a tutti. In parte è vero. Ma oggi vediamo chiaramente le conseguenze drammatiche: un’industria musicale collassata, una qualità generale livellata verso il basso, e una percezione del valore artistico sempre più sfocata.
E ora ci risiamo.
Solo che questa volta, la tecnologia non ci sta offrendo uno strumento. Ci chiede di sacrificare una parte della nostra anima creativa, di consegnare il nostro lavoro a un’entità opaca, con la promessa che “tanto ne avremo dei vantaggi”.
Ma la verità è che no, non ne avremo.
Perché questa volta non stiamo “usando” l’AI. È l’AI che sta usando noi.
Sta divorando il passato per costruirsi un futuro. Un futuro in cui l’artista non è più necessario. Basta il suo archivio, la sua discografia, i suoi esperimenti. Non occorre più che esista: basta che abbia prodotto abbastanza per alimentare la macchina.
Da compositore e autore, oggi non temo più che l’AI scriva una sinfonia migliore della mia.
Temo che l’AI scriva una sinfonia con la mia musica, senza il mio consenso, senza riconoscimento, senza compenso.
Temo che ogni bozza, idea o sketch che carico online diventi cibo per un sistema che non mi riconoscerà mai come parte del processo creativo.
Temo che questa corsa all’oro dell’AI si porterà via quello che resta della nostra dignità professionale.
E non possiamo permettercelo.
Dobbiamo prendere posizione, informare, chiedere trasparenza, pretendere diritti.
Perché la tecnologia senza etica non è progresso: è solo un’altra forma di sfruttamento.



