• Musica per Film un affare Rischioso

    FILM MUSIC: A RISKY BUSINESS

    By Charles Bernstein, Vice President SCL https://www.charlesbernstein.com/

    Fare film è un’attività rischiosa. È costosa e imprevedibile. Grandi somme di denaro, grandi ego, grandi sogni, e le carriere di tutti sono sempre in gioco. Le conseguenze finanziarie di un film fallito o di una stagione TV cancellata possono essere enormi. C’è sempre molta pressione e stress, che si diffonde a tutta la squadra di produzione, inclusi compositori e autori di canzoni.

    In un ambiente ad alto rischio, non sorprende che le persone diventino nervose e più caute. È facile diventare “avversi al rischio”. Per questo i registi spesso si affidano a formule collaudate: franchise, remake, reboot, sequel, prequel, spin-off, ecc. Nello stesso modo, l’avversione al rischio si manifesta nell’assumere compositori “sicuri” — quelli che con più probabilità forniranno qualcosa di familiare e gradito al mercato, e che con più probabilità piaceranno ai dirigenti degli studios.

    Prendere rischi creativi può essere difficile in un’industria così tesa e competitiva, ma senza creatività e rischio probabilmente non accadrebbe nulla di nuovo.
    Ma se compositori e autori di canzoni hanno la fortuna di incontrare registi avventurosi e di supporto, disposti a correre rischi creativi, i risultati possono essere davvero ispiratori. Il compositore Jerskin Fendrix ne ha beneficiato con la sua grande colonna sonora per Poor Things (2023). Gli è valsa una nomination all’Oscar®, ma probabilmente è accaduto solo grazie a Yorgos Lanthimos. Allo stesso modo, le audaci scelte musicali della candidata all’Oscar Mica Levi per She (2013) e Jackie (2016) conquistarono la fiducia dei registi avventurosi Jonathan Glazer e Pablo Larraín.

    C’è una lunga e gloriosa storia di compositori che collaborano con registi coraggiosi e di mentalità aperta. Compositori rinomati come Bernard Herrmann, Ennio Morricone e Lalo Schifrin vengono subito in mente. Tutti loro corsero regolarmente grandi rischi, resistendo alle scelte sicure e commercialmente previste. Fortunatamente furono sostenuti da registi e produttori coraggiosi e audaci. Molte delle musiche da film più famose al mondo furono considerate estremamente rischiose al momento della loro creazione. Quando Lalo Schifrin scrisse il tema iconico per Mission: Impossible nel 1966, i suoi ritmi irregolari in 5/4 con sapore jazz e modale non erano affatto tipici. Né lo erano le molte idee bizzarre di Morricone o le combinazioni strumentali inedite di Herrmann. Nulla di tutto ciò era considerato “normale” o “sicuro” quando fu presentato per la prima volta al pubblico. Fortunatamente, visione, coraggio e sostegno diedero i loro frutti.

    Consideriamo un altro esempio di chi ha corso rischi: il compositore Leonard Rosenman. Le colonne sonore che scrisse a metà del secolo scorso suonano ancora oggi radicali e progressiste — come East of Eden, Rebel Without a Cause e The Cobweb (tutte del 1955). I registi Elia Kazan, Nicholas Ray e Vincente Minnelli furono disposti a scommettere su questo nuovo arrivato. Rosenman introdusse tecniche sofisticate di serialismo a dodici toni in molte delle sue colonne sonore. Film dopo film, ignorò coraggiosamente e intelligentemente le convenzioni che altri compositori temevano di toccare. Un altro compositore audace ma poco celebrato di quell’epoca fu Jerry Fielding. Jerry fu sempre disposto ad andare controcorrente e a tentare cose che potevano sembrare quasi pericolose per gli ascoltatori contemporanei. Ci sono molti esempi di ciò, ma la sua colonna sonora per The Mechanic (1972, uscita su CD) merita davvero di essere ascoltata.

    La musica da film ha sempre combattuto con la questione del rischio contro la ricompensa. Le “temp music” (musiche temporanee) aiutano produttori e registi a gestire il rischio di provare nuove musiche nel film. Le temp tracks rassicurano: permettono ai registi di testare certe scelte musicali prima di impegnarsi in una colonna sonora definitiva. Come sappiamo, troppo spesso i registi si innamorano di questa musica temporanea. Così, quando un compositore crea una colonna sonora originale che somiglia troppo alla temp track, può sembrare che stia adottando una strategia “a basso rischio”. Eppure, paradossalmente, avvicinarsi troppo alla temp track può anche rappresentare una scelta “ad alto rischio”.
    Ma c’è un paradosso: evitare il rischio è, di per sé, rischioso. Giocare sul sicuro può condurre ad altri problemi — come svalutare o legittimare troppo la temp track, o scrivere un rifacimento troppo sicuro e noioso di una musica già esistente.
    Quindi rischio e ricompensa non sono mai garantiti o fissi. Ogni decisione presa da un compositore riguardo alla temp music può nascondere insidie in una direzione o nell’altra.

    Alcuni compositori hanno parlato di ridurre il rischio tramite la diversificazione (un termine preso in prestito dal mondo della finanza, dove la gestione del rischio è una specializzazione professionale). Ho sentito molti compositori innovativi, da Danny Elfman a Tom Newman, parlare dei vantaggi di presentare ai registi diverse opzioni musicali invece di proporne una sola alla volta. Offrendo una gamma diversificata di soluzioni, il compositore può introdurre nuove possibilità musicali che altrimenti non sarebbero emerse, ma che, una volta presentate, possono ispirare il regista ad essere più audace dopo aver ascoltato un ventaglio più ampio di scelte “sicure” e rischiose. Ciò dimostra che la via apparentemente più sicura può essere in realtà la meno efficace, mentre offrire un ventaglio più vasto di possibilità sonore può aprire la strada a direzioni più stimolanti.

    Una volta esposte più scelte sonore, molti registi tendono a orientarsi verso qualcosa di più eccitante. Questa nuova direzione rappresenta un’altra utile forma di assunzione di rischio. Nella finanza ad alto rischio (come nella musica), l’innovazione consiste nel prendere rischi informati e nel gestire più risultati possibili. L’impresa è rischio applicato con consapevolezza. “Nulla di avventurato, nulla di guadagnato” resta il cuore della parola “avventura”, che descrive perfettamente il processo di composizione. È anche un termine appropriato per il folle esercizio funambolico che è la musica da film.

    E a proposito di attività rischiose, nel 1983 uscì un film di grande successo intitolato Risky Business (Affari rischiosi). Quel film prese due rischi enormi. Il primo fu scegliere come protagonista un ragazzino sconosciuto per interpretare il ruolo principale in quella commedia liceale. Quel ragazzo si chiamava Tom Cruise. (Quest’anno, un Tom Cruise più maturo è protagonista nel grande successo Mission: Impossible – The Final Reckoning). Vale la pena notare che Mission: Impossible è diventato nel tempo un investimento sempre più “sicuro” — un franchise di successo con una star consolidata, un pubblico fedele e, non da ultimo, l’eredità del brillante tema musicale di Lalo Schifrin come garanzia di qualità.

    La seconda grande scommessa del film Risky Business riguardò la musica. Nel 1983, i produttori Jon Avnet e Steve Tisch assunsero un oscuro gruppo pop elettronico tedesco, i Tangerine Dream, per comporre la colonna sonora. Fu un’offerta rivoluzionaria e un momento memorabile nella storia della musica da film. Il produttore Jon Avnet mi raccontò che scegliere Tangerine Dream fu un’idea del regista esordiente Paul Brickman, e che lui e Brickman andarono nello studio della band a Spandau (allora Berlino Ovest) per lavorare direttamente con loro. Da allora, è diventato molto meno rischioso affidare a gruppi pop la scrittura di colonne sonore importanti per grandi film, come la musica candidata all’Oscar dei Son Lux (Everything Everywhere All at Once, 2022) o quella degli Arcade Fire (Her, 2013).
    E c’era anche la famosa colonna sonora dei Toto per Dune nel 1984, che continua ad avere un seguito entusiasta. Ma la colonna sonora innovativa e piena di sintetizzatori di Risky Business fece miracoli nel portare quel film a un successo straordinario.

    Nel mondo della musica da film, evitare completamente il rischio è impossibile. Raggiungere la sicurezza assoluta è ancora più impossibile. Le scelte che sembrano sicure possono finire in disastro, mentre quelle che appaiono rischiose possono rivelarsi le più sicure di tutte.
    Ogni compositore e autore di canzoni è costantemente esposto a opzioni pericolose a ogni passo del cammino. Chiunque crei musica o parole per mestiere lo sa: questo mestiere oscilla costantemente tra il blandamente innocuo e l’abbagliante pericoloso — può essere pericoloso come camminare su un filo sospeso.

    Quindi, brindiamo al rischio nella musica da film. Meglio fare un brindisi al vivere pericolosamente, che diventare “brindisi” per aver giocato troppo sul sicuro!

    © Charles Bernstein 2025
    www.charlesbernstein.com

  • Invisible Art of Essential Beauty – Kees Hogenbirk Review

    I’m impressed by your initiative. It’s a mental process to compose, perform and publish music which serves to help coping with all the sorrows about the future of a society under threat. 

    The particular experience for a listener, on the other hand, is that this music is palpable. It hurt my ears when I played it in the night, right before going to sleep. The piano sounds out of tune, whereas the melodies are harmonious. This juxtaposition gives the impression of a prepared piano that was damaged by a bomb, instead of being prepared for concert use — with a painful effect on the compositions. It seems as if the notes can’t reach the right tone anymore. 

    The result is an album that is hard to listen to, but it also evokes thoughts and compassion. About such an effect in art, the first comparison that came to my mind is the film ‘Salò o le 120 Giornate di Sodoma’ (1975): to show how terrifying fascism really is, Pasolini made a film that it so terrible to watch that you don’t want to see it a second time. You can’t escape the images anymore. 

    This may sound like a strange reaction. However, I can’t hide that ‘The Invisible Art of Inessential Beauty’ made me feel shivery and uncomfortable. On the other hand, wars should never feel comfortable. 

    The art direction of the album is beautiful. That, too, is a contrast well thought of. 

  • The Invisible Art of Inessential Beauty – review by Antonio Piñera García

    Listen or buy the album HERE

    ENGLISH

    The music being made nowadays doesn’t exactly invite much reflection or calm. The musical preferences of today’s listeners have declined considerably in quality in recent times, and I won’t mention any specific genre of the new musical wave, nor will I name any particular “artist,” but what is clear is that times have changed—and at least in music, though in other areas as well, things are not looking good.

    That is why it is truly refreshing that, amidst such artistic mediocrity, some albums emerge like a breath of fresh air in the musical landscape. One of the composers who strives to break away from convention, offering us something more interesting, is Kristian Sensini, a musician who usually works in film, but who with his recent work The Invisible Art of Inessential Beauty steps out of his comfort zone to present us with a narrative solo piano album. Here, Sensini immerses himself in the sensitive core of his being, since this is a record not inspired by images, but by the sensitivity of a musician who isolates himself in his studio with only his piano.

    Although Sensini is not a consummate pianist, through the eight compositions that make up this work he reveals an unusual sensitivity, where the minimalist sounds of his piano and a certain melancholy allow us, if only for a few moments, to soothe our restless and turbulent souls. And that, friends, in this day and age, already means a lot in an artist.

    All that remains is to recommend listening to it, so that audiences may enjoy the art of this Italian composer.

    ITALIANO

    La musica che si produce oggi non invita certo alla riflessione e alla calma. I gusti musicali dell’ascoltatore contemporaneo sono notevolmente decaduti in termini di qualità negli ultimi tempi, e non citerò né generi specifici della nuova ondata musicale né tanto meno qualche “artista” in particolare. Ciò che è evidente, però, è che i tempi sono cambiati, e almeno in ambito musicale – ma anche in altri campi – la situazione non appare rosea.

    Ecco perché è così prezioso che, in mezzo a tanta mediocrità artistica, emergano alcuni album che rappresentano una vera boccata d’aria fresca per il panorama musicale. Uno dei compositori che cerca di andare oltre le convenzioni, proponendo qualcosa di più interessante, è Kristian Sensini, musicista che lavora abitualmente per il cinema, ma che con il suo recente lavoro The Invisible Art of Inessential Beauty esce dalla sua zona di comfort per offrirci un racconto intimo e narrativo al pianoforte solo. In questo progetto Sensini si immerge nel lato più sensibile del proprio essere: non si tratta di un disco ispirato dalle immagini, ma dalla sensibilità di un musicista che si chiude nel suo studio, solo con il pianoforte.

    Pur non essendo un pianista consumato, Sensini riesce con le otto composizioni che compongono quest’opera a trasmettere un’insolita delicatezza, in cui i suoni minimalisti del pianoforte e una certa malinconia ci permettono, anche solo per qualche istante, di placare la nostra anima agitata e frenetica. E questo, amici, oggi è già moltissimo per un artista.

    Non mi resta che consigliarne l’ascolto, affinché gli ascoltatori possano godere dell’arte di questo compositore italiano.

  • AI e Musica: la Minaccia Non è la Macchina, ma Chi la Nutre

    Nel corso degli ultimi anni ho scritto più volte sull’intelligenza artificiale applicata alla musica. Inizialmente, la mia posizione era piuttosto ottimista: pensavo che la creatività umana, nella sua complessità emotiva, culturale e personale, fosse un elemento difficilmente replicabile da una macchina. L’AI poteva forse affiancarci, supportarci in alcuni compiti tecnici o organizzativi, ma non sarebbe mai stata in grado di essere creativa nel senso più profondo del termine.

    Col passare del tempo, però, questa opinione è cambiata radicalmente.

    Non è cambiata tanto perché la macchina è diventata “più creativa”, ma perché mi sono reso conto che l’intelligenza artificiale si sta sviluppando e migliorando alimentandosi di opere creative umane, spesso protette da copyright, in modi tutt’altro che trasparenti. I modelli di AI generativa sono allenati su enormi quantità di dati — musica, testi, immagini — spesso raccolti senza il consenso esplicito degli autori o degli aventi diritto. Questo sposta il discorso: non è più solo questione di concorrenza tra esseri umani e macchine, ma di utilizzo indiscriminato e legalmente discutibile del nostro lavoro creativo per educare l’AI.

    Diverse piattaforme che molti di noi usano quotidianamente, come WeTransfer, SoundCloud, ma anche Spotify, Google Drive e altri servizi cloud, stanno aggiornando le loro politiche. In modo spesso poco chiaro e con linguaggio volutamente vago, si stanno riservando il diritto di utilizzare ciò che carichiamo per “migliorare i loro servizi” — che in molti casi significa contribuire ad addestrare l’intelligenza artificiale.

    In pratica: se vuoi usare il servizio, devi accettare che la tua musica, le tue idee, i tuoi demo vengano dati in pasto all’AI.

    E ora, un altro passo preoccupante: l’ingerenza politica.

    Un articolo pubblicato su Wired (link qui) mostra come negli Stati Uniti — una delle nazioni più influenti nel mondo tecnologico — si stia discutendo di eliminare il copyright o di ridurne drasticamente il potere per “non ostacolare il progresso dell’intelligenza artificiale”. In altre parole, ciò che fino a ieri veniva tutelato come diritto d’autore, oggi viene visto come un ostacolo tecnico da rimuovere.

    Nel video del canale Nebula/YouTube “How AI Will Destroy Copyright (and How We Save It)”, viene spiegato chiaramente quanto la questione sia sistemica: non è una deriva etica, è una strategia. Alcuni dei giganti tecnologici stanno spingendo per un mondo in cui tutto sia disponibile per il consumo delle AI — testi, immagini, musica — e in cui i creativi perdano qualsiasi controllo sulle proprie opere.

    Non è solo una nuova “innovazione tecnologica”

    Quello che non possiamo più permetterci di fare, oggi, è condividere quell’ottimismo – o, per alcuni, rassegnazione – che ha accompagnato ogni ondata tecnologica del passato. Molti colleghi, anche in buona fede, continuano a ripetere che “si tratta solo dell’ennesima evoluzione tecnologica. Abbiamo già affrontato i sintetizzatori, le drum machine, i campionatori, la produzione in home studio… e siamo sopravvissuti”.

    Ma questa volta è diverso. Perché stavolta non si tratta di uno strumento al servizio del musicista. Si tratta di una macchina che si nutre di milioni di opere senza compenso, senza trasparenza, senza consenso. E con l’appoggio di governi e multinazionali, rischia di distruggere le fondamenta stesse del nostro lavoro: il diritto d’autore, il riconoscimento dell’unicità, la sostenibilità della professione artistica.

    È vero: la storia della musica è costellata di svolte tecnologiche. L’organo a canne, l’organo Hammond, i sintetizzatori, i campionatori, le drum machine, i virtual instruments, le Digital Audio Workstation, la distribuzione digitale via MP3, lo streaming… Ogni innovazione ha portato con sé nuove opportunità, ma anche profonde crisi.

    Ogni volta, una figura professionale veniva spazzata via.
    L’orchestratore, il turnista, il fonico, il produttore discografico, l’etichetta indipendente, il distributore fisico.
    Ma in nome della “democratizzazione”, ci siamo convinti che la creatività diventasse più accessibile a tutti. In parte è vero. Ma oggi vediamo chiaramente le conseguenze drammatiche: un’industria musicale collassata, una qualità generale livellata verso il basso, e una percezione del valore artistico sempre più sfocata.

    E ora ci risiamo.

    Solo che questa volta, la tecnologia non ci sta offrendo uno strumento. Ci chiede di sacrificare una parte della nostra anima creativa, di consegnare il nostro lavoro a un’entità opaca, con la promessa che “tanto ne avremo dei vantaggi”.

    Ma la verità è che no, non ne avremo.

    Perché questa volta non stiamo “usando” l’AI. È l’AI che sta usando noi.

    Sta divorando il passato per costruirsi un futuro. Un futuro in cui l’artista non è più necessario. Basta il suo archivio, la sua discografia, i suoi esperimenti. Non occorre più che esista: basta che abbia prodotto abbastanza per alimentare la macchina.

    Da compositore e autore, oggi non temo più che l’AI scriva una sinfonia migliore della mia.
    Temo che l’AI scriva una sinfonia con la mia musica, senza il mio consenso, senza riconoscimento, senza compenso.
    Temo che ogni bozza, idea o sketch che carico online diventi cibo per un sistema che non mi riconoscerà mai come parte del processo creativo.
    Temo che questa corsa all’oro dell’AI si porterà via quello che resta della nostra dignità professionale.

    E non possiamo permettercelo.
    Dobbiamo prendere posizione, informare, chiedere trasparenza, pretendere diritti.
    Perché la tecnologia senza etica non è progresso: è solo un’altra forma di sfruttamento.

  • Music That Funds War: Why Spotify Has Become an Ethical Problem

    For years, we’ve tolerated — or perhaps ignored — the paradox of the music streaming system: artists receiving fractions of a cent per thousands of plays, while platforms rake in billions. We’ve pointed out that selling a CD, a T-shirt, or even playing a small live gig is far more profitable than ten thousand streams on Spotify. But now the issue has moved beyond economics. It’s a cultural, political, and deeply ethical crisis.

    The tipping point? Weapons.

    In 2021, Spotify CEO Daniel Ek invested hundreds of millions of euros into Helsing, a European defense company specializing in AI-powered military technologies. But it wasn’t just a passive investment: Ek became chairman of the board. Helsing develops systems for automated warfare — drones, surveillance tools, targeting software — all designed to make killing faster, more “efficient,” and increasingly autonomous.

    And it’s the money generated by the music we listen to every day that helps fund this dystopian reality. Every premium subscription, every ad, every stream contributes to the revenue Spotify produces — revenue now fueling the development of next-generation AI weaponry.

    Artists are taking a stand

    The backlash was swift. Indie band Deerhoof pulled their entire catalog from Spotify, declaring: “We don’t want our music killing people. We don’t want our success tied to AI battle tech.”

    Other artists followed:

    • Folk singer Leah Senior said: “As soon as I saw the connection between Spotify and AI weapons, something snapped inside me. Enough.”
    • Melbourne band Dr Sure’s Unusual Practice refused to upload their latest album, stating: “Withholding our work — our labor — that’s the only tool we have.”
    • The Dutch electronic label Kalahari Oyster Cult removed most of its releases, denouncing a platform that “underpays artists and reinvests its profits into war.”

    The United Musicians and Allied Workers (UMAW) union called Ek “a warmonger who pays artists poverty wages.”

    This isn’t just about unfair pay anymore. It’s about not wanting your art to be a silent accomplice to violence. The money generated from creativity is being funneled into creating weapons. What was once an economic protest is now a moral one.

    Spotify’s second AI problem

    On top of the military controversy, Spotify is also under fire for reportedly promoting AI-generated music by “fake artists” like Aventhis and The Velvet Sundown — music that racks up millions of streams and appears on official playlists. Many suspect Spotify is using algorithmic music to reduce its royalty payouts to human artists, replacing them with non-human alternatives.

    It paints a bleak picture: human creativity is being devalued, both by underpayment and by quiet replacement.

    What can listeners do?

    The power now lies with listeners. Every stream is a vote. Every subscription is a contribution. And now, those dollars, those listens, are helping build machines designed to kill.

    But we have alternatives:

    • Cancel Spotify — It’s not a sacrifice. It’s a decision to disengage from an immoral system.
    • Support artists directly — Buy their music, go to shows, use platforms like Bandcamp or Resonate.
    • Talk about it — Share this issue with your friends and community.

    We are closer than ever to an ethical Renaissance in music. We’re rediscovering the joy of live concerts, the intimacy of vinyl, the value of personal connection with music and musicians. We just need to take the next step.

    Stop funding a system that betrays the very soul of music.


    Further Reading & Sources:

  • La Musica che Finanzia la Guerra: Perché Spotify è Diventato un Problema Etico

    Per anni abbiamo discusso – spesso inascoltati – del paradosso che regola il sistema dello streaming musicale: artisti che ricevono pochi centesimi per migliaia di ascolti, mentre le piattaforme macinano profitti miliardari. Abbiamo cercato di spiegare che vendere un CD, una maglietta, perfino suonare in un piccolo locale, vale economicamente molto di più di diecimila stream su Spotify. Ma oggi la questione ha superato il piano economico, trasformandosi in un problema etico, culturale e politico.

    La goccia che ha fatto traboccare il vaso? Le armi.

    Nel 2021, Daniel Ek – fondatore e CEO di Spotify – ha investito centinaia di milioni nel colosso militare europeo Helsing, specializzato in tecnologie di difesa basate sull’intelligenza artificiale. Ma non si tratta di un semplice investimento passivo: Ek è diventato anche presidente del consiglio d’amministrazione della società. Helsing sviluppa tecnologie per la guerra automatizzata: droni autonomi, sistemi di riconoscimento e identificazione dei bersagli, software capaci di decidere chi colpire in una frazione di secondo.

    Ed è proprio con i profitti generati dalla musica che ascoltiamo ogni giorno che Spotify contribuisce, indirettamente ma concretamente, a finanziare questo scenario distopico. Una parte dei soldi provenienti dagli abbonamenti premium, dalle pubblicità e dagli ascolti finisce nelle casse dell’azienda che Daniel Ek usa per costruire “armi intelligenti”. Così, la musica che dovrebbe consolare, unire, creare bellezza, viene trasformata in una risorsa strategica per la guerra.

    Una protesta che parte dagli artisti

    L’annuncio dell’investimento ha scatenato un’ondata di indignazione nel mondo musicale indipendente. Gruppi come Deerhoof hanno rimosso l’intero catalogo da Spotify dichiarando: “Non vogliamo che la nostra musica uccida delle persone. Non vogliamo avere nulla a che fare con la tecnologia bellica.”

    Altri artisti hanno seguito l’esempio:

    • La cantautrice Leah Senior ha detto: “Appena ho letto della connessione tra Spotify e le armi AI, qualcosa dentro di me si è rotto. È stato un segnale chiarissimo: basta.”
    • Il gruppo post-punk Dr Sure’s Unusual Practice ha deciso di non pubblicare il nuovo album sulla piattaforma, sottolineando come “con il nostro lavoro, l’unica arma che abbiamo è la rinuncia”.
    • L’etichetta elettronica Kalahari Oyster Cult ha cancellato gran parte del proprio catalogo in segno di protesta contro una piattaforma che “sfrutta gli artisti e reinveste i profitti nella guerra”.

    Anche l’associazione United Musicians and Allied Workers ha preso posizione, definendo Ek “un guerrafondaio che paga gli artisti salari da fame”.

    Dal boicottaggio economico a una rivoluzione morale

    Ciò che un tempo sembrava solo una battaglia per un’equa retribuzione, oggi diventa una questione di coscienza. Se prima si protestava per ricevere qualcosa in più, ora si protesta per non essere complici. Il denaro che Spotify guadagna dalla creatività degli artisti, oggi finanzia tecnologie pensate per uccidere più velocemente, con meno intervento umano, con più “efficienza”. Un incubo che si traveste da progresso.

    Ma il problema non finisce qui. Sempre più prove indicano che Spotify stia anche promuovendo musica generata da intelligenze artificiali sotto falsi nomi d’artista, come Aventhis e The Velvet Sundown, accumulando milioni di stream. Il sospetto è che la piattaforma stia deliberatamente dando visibilità a contenuti sintetici, generati in-house o tramite accordi opachi, per ridurre i pagamenti agli artisti veri. Così, da una parte si sfrutta l’arte umana, dall’altra la si sostituisce.

    E adesso tocca a noi, gli ascoltatori

    Non è più sufficiente che gli artisti si facciano carico del boicottaggio. È necessario che anche noi, come utenti, ci assumiamo la responsabilità delle nostre scelte. Ogni stream, ogni abbonamento, ogni ascolto contribuisce a un sistema che ha smesso di essere solo ingiusto: è diventato immorale.

    Ma la soluzione esiste. Possiamo scegliere di sostenere direttamente gli artisti. Possiamo migrare verso piattaforme etiche come Bandcamp o Resonate. Possiamo comprare la musica che amiamo, assistere ai concerti, tornare a un’esperienza reale e concreta. Possiamo far sì che la musica torni a essere comunità, relazione, esperienza vissuta.

    Siamo a un passo da un Rinascimento musicale. Ma dobbiamo fare quel passo.

    Se abbandonassimo Spotify oggi, non sarebbe una rinuncia: sarebbe un gesto di libertà, di dignità, di coscienza. Non lasciamo che la colonna sonora della nostra vita venga usata per progettare la prossima guerra.


    Per approfondire:

  • LE COMPETENZE NASCOSTE DI UN COMPOSITORE CINEMATOGRAFICO

    di Charles Bernstein, Vicepresidente Society of Composers and Lyricist https://thescl.com/

    (“A Film Composer’s Hidden Skill Set” Articolo originariamente comparso in “Score” Magazine dell’SCL, traduzione di Kristian Sensini)

    https://www.charlesbernstein.com/

    Il compito principale di un compositore cinematografico è chiaro. Basta scrivere della buona musica — trasformare il silenzio vuoto in suoni drammatici che aiutino a raccontare una storia. Ma scrivere buona musica da sola non basta. I compositori devono fare molto di più.

    Compore musica per film richiede spesso un insieme aggiuntivo di competenze che hanno poco a che fare con la musica, e molto a che fare con la vita. Imparare l’arte della composizione musicale e delle tecniche di scoring per film può coprire solo una parte del lavoro. Molte competenze sono sottili, personali, non musicali, che possono sembrare estranee al comporre, ma che sono raramente insegnate, raramente scritte nei libri, e non fanno parte del consueto curriculum universitario.

    Allora, quali potrebbero essere alcune di queste misteriose “abilità extra-musicali”? Per iniziare, potremmo considerare la “sensibilità”.

    Cosa significa davvero essere sensibili? Potrebbe includere nozioni come “essere aperti”, “consapevoli” e “ricettivi”. I compositori di film non hanno bisogno di essere “sintonizzati” su tutto ciò che li circonda. Ma “leggere la stanza” è una parte fondamentale di ciò che rende i compositori efficaci. Capire il contesto è davvero importante. Non cogliere ciò che sta comunicando il regista, o che il film stesso sta chiedendo, può essere un grande ostacolo in questa professione. I registi hanno tutte le loro idiosincrasie musicali, preferenze e aspettative. Potrebbero nemmeno essere consapevoli di questi indizi, che possono essere oscuri o comunicati indirettamente. Così, l’abilità del compositore nel percepire segnali sottili, cambiamenti di tono, direttive implicite o suggerimenti vaghi diventa cruciale. Questo richiede apertura, una prospettiva ricettiva, attenzione a tutte le possibilità, attitudine all’ascolto e sintonizzazione con il flusso di energia nella stanza o su Zoom. L’alternativa è essere “insensibili”, il che difficilmente porta a buoni risultati.

    Facciamo un esempio. Un compositore insensibile che dice: “Se non riescono a notare il mio talento, è un problema loro” probabilmente non andrà lontano nel settore. Naturalmente, c’è un rischio nel farsi trascinare troppo: si potrebbe sembrare deboli o troppo arrendevoli. Nel mondo del cinema, è spesso necessario avere la pelle dura (una cosa che si impara con un po’ di pratica).

    Ci sono altre qualità altrettanto importanti ma elusive che i compositori possono acquisire col tempo. L’empatia, per esempio. Questa può essere una forma più profonda e raffinata di sensibilità. L’empatia vale la pena di essere coltivata, perché è al centro di molte pratiche cinematografiche, specialmente recitazione, scrittura e regia. L’empatia è definita come l’esperienza dei sentimenti, pensieri e prospettive di un’altra persona. La famosa autrice e psichiatra Judith Orloff ha scritto molto su questo concetto. Orloff identifica persone con una forte capacità empatica come “empatici”. I compositori rientrano spesso in questa descrizione. Per le persone empatiche, è quasi impossibile non assorbire ciò che i personaggi vivono sullo schermo, o ciò che trasmette la musica al pubblico. Più profondamente ancora, i compositori assorbono la tensione emotiva nella stanza stessa. Come Orloff sottolinea, spesso non è facile separarsi da tutto questo. Non è semplice interiorizzare ed esprimere le emozioni profonde altrui. Essere un compositore musicale a volte può sembrare come nuotare nel fuoco emotivo degli altri, e questo può avere un prezzo. È sicuramente vero per i compositori che lavorano su drammi cupi, thriller e film dell’orrore. Il trucco per i compositori può essere quello di interiorizzare completamente le emozioni che si sentono — esprimerle musicalmente — e poi lasciarle andare. Non è un’abilità facile da padroneggiare, ma ne vale la pena.

    Per alleggerire il peso e mantenersi sani, potremmo pensare alla composizione come a un duro allenamento in palestra, o a una lunga escursione, o forse anche come a giocare con il cane. (Ci sono compositori amanti dei cani là fuori? 😉 )

    Ci sono poi altre abilità non musicali che i compositori sviluppano nel tempo, e che risultano indispensabili al successo. I compositori spesso devono lavorare come parte di un team creativo. In un mondo perfetto, un team cinematografico funzionerebbe come un’orchestra: tutti sulla stessa pagina, efficienti e armoniosi. Questa fantasia potrebbe certamente aiutare non solo il lavoro del compositore, ma anche quello di registi, produttori, sceneggiatori, dirigenti di studio, e così via. Tutti noi siamo esseri umani sensibili, spesso con forti opinioni e desideri. Come anche gli editori, supervisori musicali, dirigenti marketing e PR. Gusti e sensibilità molto diverse. E il compositore può facilmente sentirsi improvvisamente trascinato in un flusso disfunzionale. Tutti noi ci siamo passati: tempo sprecato solo per cercare di capire chi voleva cosa (e chi stava davvero prendendo le decisioni). In tali situazioni, non sorprende che le persone con abilità sociali straordinarie siano quelle che riescono ad avere successo — ed è qui che le competenze non musicali diventano molto utili: quelle di un diplomatico, psicoterapeuta o maestro zen.

    In altre parole, le menti più brillanti del settore possono includere anche un chiaroveggente, un mediatore, un consigliere, o un sensitivo ben addestrato. Nessuna di queste abilità si insegna facilmente. È più difficile di quanto sembri gestire le forti personalità che dominano il settore, ma spesso c’è un modo per uscirne. La pazienza e la grazia sono essenziali quanto le abilità di orchestrazione. Una volta acquisite, queste competenze non musicali possono davvero salvare la giornata, e il compositore può trovarsi ad alternare ruoli che non sono nemmeno stati descritti, e che forse non hanno neppure un nome.

    Charles Bernstein

  • Coproduzioni USA – Europa. Una nuova opportunità per i compositori?

    Negli ultimi anni, l’industria cinematografica statunitense ha assistito a una progressiva riduzione dei finanziamenti pubblici destinati alla produzione cinematografica. Questa tendenza ha spinto molti registi e produttori americani a rivolgersi sempre più frequentemente alle coproduzioni europee, attratti non solo dalle opportunità finanziarie, ma anche dalla maggiore libertà artistica e da un ambiente cinematografico percepito come più orientato all’arte e meno all’industria.

    In Europa, il finanziamento pubblico diretto rappresenta una componente significativa del budget per la produzione cinematografica. Secondo un rapporto dell’European Audiovisual Observatory, nel 2022 il finanziamento pubblico ha coperto il 27% del totale dei costi per i film europei, seguito dagli incentivi alla produzione (20%) e dagli investimenti dei broadcaster (18%). Questa struttura di finanziamento rende l’Europa un partner attraente per le coproduzioni, offrendo un supporto economico stabile e un contesto che valorizza l’espressione artistica.

    Oltre ai finanziamenti diretti, un altro aspetto che rende le coproduzioni europee particolarmente appetibili per i produttori stranieri sono i tax credits e gli sgravi fiscali offerti da molti paesi europei. Sistemi come il Tax Credit italiano o i meccanismi di incentivo in Francia e Germania garantiscono un ritorno economico significativo per le produzioni che scelgono di girare e investire in Europa. Questo aspetto finanziario, unito alla libertà creativa, ed ai costi di produzione generalmente più bassi, spiega perché sempre più produzioni americane stanno cercando di spostare le loro operazioni nel mercato europeo.

    Per i compositori italiani, questa crescente inclinazione verso le coproduzioni europee rappresenta un’opportunità unica per riaffermarsi sul panorama internazionale. Tuttavia, attualmente, la loro presenza nelle produzioni europee è ancora limitata. Un’indagine ha rilevato che il 43% dei compositori italiani non ha mai lavorato a progetti europei al di fuori dell’Italia, evidenziando le difficoltà nell’accedere a tali opportunità.

    Un aspetto fondamentale da considerare è che, se i compositori italiani ottengono più incarichi nelle produzioni europee, ne beneficia l’intera filiera musicale e audiovisiva del paese. Studi di registrazione, orchestre, tecnici del suono e altri professionisti del settore vedrebbero aumentare la domanda per i loro servizi, con un impatto positivo sull’industria musicale italiana nel suo complesso. Ricordiamo inoltre che i finanziamenti europei destinati alle produzioni devono essere spesi in Europa: questo significa che, se i compositori italiani vengono coinvolti in queste produzioni, è molto più probabile che le registrazioni vengano effettuate in Italia, contribuendo all’economia locale.

    Un obiettivo strategico dovrebbe quindi essere quello di incentivare i produttori italiani a partecipare più attivamente alle coproduzioni europee e a imporsi nella scelta dei compositori. Per farlo, si possono intraprendere diverse azioni:

    1. Promozione istituzionale: Le istituzioni culturali italiane, come il Ministero della Cultura e la SIAE, dovrebbero sviluppare iniziative mirate a promuovere i compositori italiani all’estero. Questo potrebbe includere l’organizzazione di workshop, la partecipazione a festival internazionali e la creazione di programmi di mentorship con professionisti del settore.
    2. Sviluppo delle competenze: È fondamentale che i compositori italiani investano nella propria formazione, migliorando le competenze linguistiche, le abilità di marketing personale e la capacità di operare in contesti internazionali. Collaborare con registi emergenti stranieri può rappresentare un primo passo significativo in questa direzione.
    3. Riforma delle coproduzioni: Sarebbe utile rivedere le regole delle coproduzioni europee per garantire una maggiore equità nella selezione dei compositori, favorendo la mobilità dei talenti tra i vari paesi e assicurando che le competenze italiane siano adeguatamente valorizzate.
    4. Utilizzo delle piattaforme digitali: Internet offre la possibilità di collaborare a progetti internazionali anche a distanza. I compositori italiani dovrebbero sfruttare le piattaforme online per promuovere il proprio lavoro e stabilire connessioni con registi e produttori stranieri, ampliando così le proprie opportunità professionali.

    Implementando queste strategie, i compositori italiani potranno aumentare la loro visibilità e partecipazione nelle produzioni cinematografiche europee, contribuendo a rafforzare la presenza italiana nel panorama cinematografico internazionale e generando benefici per tutta la filiera musicale e audiovisiva del paese.

    La crescita delle coproduzioni europee potrebbe non tradursi automaticamente in un aumento dei budget destinati ai compositori e alle registrazioni delle colonne sonore. Un’indagine recente ha rivelato che molti compositori italiani lavorano su intere colonne sonore per compensi inferiori ai 10.000 euro a progetto, una cifra ben al di sotto degli standard internazionali. Il rischio concreto è che, anche se le coproduzioni attirano lavoro in Italia, i compensi rimangano bassi, con l’unico vantaggio per i compositori rappresentato dalla maggiore visibilità.

    Questo scenario solleva un problema strutturale: se le produzioni europee continueranno a considerare la musica come una voce di spesa sacrificabile, i compositori italiani potrebbero finire per ottenere solo un ampliamento della loro rete di contatti, senza un miglioramento delle condizioni economiche. Tuttavia, lavorare su coproduzioni internazionali potrebbe almeno garantire loro una maggiore esposizione oltre i confini nazionali, aumentando le possibilità di essere coinvolti in progetti più prestigiosi in futuro.

    Per invertire questa tendenza, sarebbe necessario un cambio di mentalità nelle politiche di finanziamento e nelle pratiche contrattuali, magari con linee guida che garantiscano budget adeguati per la colonna sonora nei progetti di coproduzione. Una soluzione naturale sarebbe una legislazione diffusa che riservi alle musiche originali (non al licensing di musiche di repertorio) una percentuale precisa del budget totale della produzione del film. In questo modo, si assicurerebbe un riconoscimento economico più equo per i compositori, garantendo che la musica, elemento fondamentale dell’esperienza cinematografica, riceva l’attenzione e le risorse che merita.

  • Il mestiere del compositore di musica per film in Italia: un’indagine sulla professione

    Il ruolo del compositore di musica per film ha subito profonde trasformazioni negli ultimi anni, a seguito delle evoluzioni tecnologiche, delle nuove modalità di produzione audiovisiva e delle mutate esigenze dell’industria cinematografica. Per comprendere meglio la realtà attuale di questa professione in Italia, il mese scorso ho realizzato un sondaggio, sotto forma di questionario a risposta multipla, con l’obiettivo di indagare lo stato del mestiere di compositore di musica per il cinema e la televisione.

    Le domande sono state rivolte a un gruppo specifico di compositori, tutti professionisti che lavorano regolarmente per il cinema e la TV, selezionati all’interno dell’ACMF (Associazione Compositori Musica per Film).

    Cos’è l’ACMF?

    L’ACMF (Associazione Compositori Musica per Film) è un’organizzazione che riunisce compositori italiani attivi nel mondo del cinema, della televisione e delle produzioni audiovisive in generale. Fondata con l’intento di promuovere e tutelare la figura del compositore nell’industria audiovisiva, l’ACMF si impegna a valorizzare il ruolo della musica all’interno della narrazione cinematografica, offrendo supporto e creando occasioni di confronto tra i professionisti del settore. L’associazione si occupa anche di sensibilizzare il pubblico e le istituzioni sull’importanza della musica nel linguaggio audiovisivo e di favorire la crescita professionale dei suoi membri attraverso iniziative culturali e formative.

    Obiettivo del sondaggio

    L’indagine mira a raccogliere dati significativi sulle condizioni di lavoro, sulle sfide e sulle opportunità che caratterizzano il mestiere del compositore per il cinema e la TV in Italia. In particolare, il questionario esplora aspetti quali il rapporto con i registi e i produttori, le dinamiche contrattuali, l’impatto delle nuove tecnologie e il ruolo delle piattaforme digitali nella distribuzione della musica per film.

    Attraverso i risultati di questo sondaggio, cercheremo di delineare un quadro più chiaro e aggiornato della situazione, offrendo spunti di riflessione e proposte per il miglioramento delle condizioni professionali dei compositori italiani.

    1. “Quando hai composto la colonna sonora per il tuo ultimo film?”

    Dai risultati emerge che circa il 74% dei compositori intervistati ha lavorato su un film negli ultimi 12 mesi, indicando un’attività professionale costante. Il 17% ha dichiarato di aver composto l’ultima colonna sonora tra uno e tre anni fa, mentre una percentuale più ridotta ha lavorato oltre tre anni fa.

    Un dato significativo è che circa il 6% degli intervistati ha riferito di non aver composto una colonna sonora per un film da più di cinque anni, un numero che, pur essendo minoritario, merita attenzione.

    È importante sottolineare che questi dati riguardano esclusivamente professionisti del settore, non appassionati o amatori. La maggioranza, ovvero tre quarti degli intervistati, dimostra che il lavoro c’è e che l’attività dei compositori per film è tuttora presente. Tuttavia, prima di trarre conclusioni definitive, è necessario analizzare l’intero quadro emerso dal sondaggio

    2. Qual è stato il compenso medio per la tua ultima colonna sonora (premio partitura) ?

    La seconda domanda del sondaggio riguardava il compenso medio ricevuto dai compositori per la loro ultima colonna sonora. In particolare, si chiedeva quale fosse il “premio partitura”, ovvero il compenso corrisposto esclusivamente per la scrittura della colonna sonora, escludendo diritti d’autore e altri eventuali introiti accessori.

    Dai dati raccolti emerge una realtà frammentata, con compensi distribuiti in diverse fasce:

    • Circa un terzo dei compositori ha dichiarato di aver ricevuto meno di 5.000 euro per la propria ultima colonna sonora.
    • Un altro terzo ha indicato un compenso tra 5.000 e 10.000 euro.
    • Il 22% dichiara un compenso tra i 10.000 e 20.000 euro
    • Solo una piccola percentuale ha riferito di aver percepito oltre 25.000 euro per il proprio lavoro.

    Questi numeri mettono in evidenza un aspetto significativo: sebbene il lavoro per i compositori ci sia, spesso si tratta di progetti a basso budget. Infatti, considerando che circa due terzi dei rispondenti ha ricevuto un compenso massimo di 10.000 euro, emerge la difficoltà di sostenersi economicamente esclusivamente con questa attività, soprattutto se si lavora a un solo film all’anno.

    È importante sottolineare che i film in questione non sono cortometraggi o produzioni studentesche, ma lungometraggi effettivamente distribuiti in sala o su piattaforme. Questo dato evidenzia una caratteristica tipica del mercato italiano, dove i compositori si trovano spesso a lavorare con budget ridotti anche su produzioni di rilievo.

    Infine, sebbene esista una minoranza di compositori che ha percepito compensi più elevati (oltre 25.000 euro), questa rappresenta una percentuale davvero esigua. Un dato che conferma la necessità di una riflessione più ampia sulle condizioni economiche della professione e sulla sostenibilità del mestiere di compositore di musica per film in Italia.

    3. Quante colonne sonore hai composto negli ultimi cinque anni?

    La terza domanda del sondaggio mirava a comprendere la frequenza con cui i compositori hanno lavorato a nuove colonne sonore negli ultimi cinque anni.

    Dai dati raccolti emerge che circa la metà degli intervistati ha lavorato a cinque o più colonne sonore, confermando così una media di circa una colonna sonora all’anno. Questo dato appare coerente con quelli delle domande precedenti, suggerendo che una parte significativa dei compositori riesce a mantenere una certa continuità lavorativa.

    Tuttavia, non tutti riescono a lavorare con regolarità. Una parte degli intervistati ha dichiarato di non aver composto alcuna colonna sonora negli ultimi cinque anni, evidenziando quindi l’esistenza di una fascia di professionisti che, pur essendo attivi nel settore, non ha avuto opportunità recenti di lavorare su un progetto cinematografico o televisivo.

    Analizzando le altre fasce di risposta:

    • 11% ha lavorato a due colonne sonore;
    • 15% ha lavorato a tre colonne sonore;
    • 11% ha lavorato a quattro colonne sonore.

    Questi numeri confermano che non tutti i compositori riescono a lavorare con continuità ogni anno, ma che esiste comunque una parte significativa che mantiene un’attività regolare. Il dato più rilevante rimane il fatto che la metà dei compositori intervistati ha composto almeno una colonna sonora all’anno negli ultimi cinque anni, dimostrando che, nonostante le difficoltà del settore, il lavoro per alcuni professionisti continua ad esserci.

    4. Quando hai lavorato per l’ultima volta a un film italiano uscito in sala?

    Questa domanda del sondaggio ha permesso di analizzare la proporzione tra i compositori che hanno lavorato a film destinati alla sala cinematografica rispetto a quelli destinati, presumibilmente, allo streaming o ad altre forme di distribuzione.

    Dai dati raccolti emerge che:

    • 38% degli intervistati ha lavorato a un film uscito in sala negli ultimi 12 mesi;
    • 27% ha lavorato a un film uscito tra uno e tre anni fa;
    • 11% ha lavorato a un film uscito tra tre e cinque anni fa;
    • 23% ha dichiarato di non aver lavorato a un film destinato al cinema da più di cinque anni.

    Il dato del 23% rappresenta una percentuale significativa di compositori che hanno visto la loro ultima esperienza con un film destinato alla sala cinematografica oltre cinque anni fa. Questo suggerisce che sempre meno compositori hanno l’opportunità di lavorare su film che vengono distribuiti nei cinema, mentre si evidenzia una crescente predominanza di lavori destinati alle piattaforme di streaming.

    Il mercato cinematografico è cambiato profondamente negli ultimi anni, con una distribuzione sempre più orientata allo streaming piuttosto che alla sala cinematografica. Questo cambiamento potrebbe essere una delle cause della diminuzione dei compensi per i compositori, poiché le produzioni per piattaforme streaming spesso riservano budget più contenuti alla colonna sonora rispetto ai film destinati alla distribuzione cinematografica.

    Un altro aspetto da considerare è il crescente interesse verso il linguaggio seriale, che sta acquisendo sempre più rilevanza rispetto a quello cinematografico tradizionale. Questo potrebbe rappresentare una nuova opportunità per i compositori, ma allo stesso tempo pone delle sfide economiche e creative differenti.

    Questi dati ci offrono una visione chiara della trasformazione dell’industria audiovisiva e del suo impatto sul lavoro dei compositori. Ognuno può trarre le proprie conclusioni, ma appare evidente che la centralità della sala cinematografica sta progressivamente diminuendo, mentre il mondo dello streaming diventa sempre più dominante.

    5. Qual è stato il tuo ultimo progetto europeo (esclusi film italiani)?

    Escludendo i film italiani, questa domanda mirava a comprendere il rapporto dei compositori italiani con il mercato europeo. Non solo dal punto di vista lavorativo, ma anche in termini di riconoscimenti, pubbliche relazioni e altre opportunità professionali.

    Ho chiesto: “Hai lavorato a film europei negli ultimi anni?”

    Dai dati raccolti emerge che:

    • 43% degli intervistati ha risposto di non aver mai lavorato a un progetto europeo al di fuori dell’Italia.
    • 21% ha lavorato a un film europeo negli ultimi 12 mesi.
    • il 18% tra uno e tre anni
    • 17% ha collaborato a un film europeo tra tre e cinque anni fa.

    Se sommiamo coloro che hanno lavorato a un film europeo negli ultimi 12 mesi e negli ultimi tre anni, otteniamo circa il 31%, una percentuale decisamente inferiore alla metà del totale. Questo dato sottolinea la difficoltà per i compositori italiani nel trovare opportunità di lavoro all’estero, anche in Europa.

    Questo argomento l’ho già affrontato in un altro contesto, ma vale la pena riprenderlo. I compositori italiani hanno oggettive difficoltà a entrare nel mercato europeo, e non mi riferisco a Hollywood o Bollywood, ma a produzioni di paesi vicini come Francia, Germania e Spagna. Questo avviene perché molte produzioni europee tutelano i propri talenti nazionali con agevolazioni economiche e sgravi fiscali. Ad esempio, una produzione francese che ingaggia un compositore francese può ottenere incentivi statali, cosa che rende più difficile per un italiano essere scelto.

    Anche nelle coproduzioni tra Italia e altri paesi europei, spesso il compositore viene scelto dall’altra nazione coinvolta. Nonostante il progetto sia in parte italiano, la produzione straniera tende a imporre un proprio compositore. Questo è un fenomeno ricorrente che sto studiando, anche se non ho ancora dati scientifici precisi alla mano. Se qualcuno ha esperienze dirette o informazioni su questo meccanismo, mi contatti: sarebbe interessante approfondire.

    Basta osservare i dati sulle coproduzioni per notare che raramente viene scelto un compositore italiano. Al contrario, in Italia è abbastanza comune affidare colonne sonore a professionisti stranieri, una pratica positiva per lo scambio di idee e creatività. Sarebbe altrettanto giusto che anche i compositori italiani potessero lavorare per film francesi, spagnoli, tedeschi e di altri paesi.

    Il talento deve poter circolare liberamente e non rimanere confinato entro i limiti di una singola nazione. Questo dato è molto significativo e merita di essere approfondito ulteriormente.

    6.  Hai mai lavorato a un progetto fuori dall’Europa?

    Questa domanda mira a esplorare la presenza dei compositori italiani nei mercati cinematografici extraeuropei, analizzando il loro coinvolgimento in produzioni statunitensi, cinesi, indiane o di altri territori internazionali.

    Dai dati raccolti emerge che:

    • 36% dei compositori intervistati ha risposto no, mai, indicando di non aver mai avuto esperienze lavorative al di fuori dell’Europa.
    • 22% ha dichiarato di aver lavorato a un progetto extraeuropeo tra uno e cinque anni fa.
    • 18% ha risposto di aver avuto un’esperienza simile più di cinque anni fa.
    • 23% ha risposto si nel corso dell’ultimo anno

    Questi numeri confermano una tendenza già evidenziata nelle risposte alle domande precedenti: i compositori italiani hanno una presenza molto limitata nei mercati internazionali al di fuori dell’Europa. Se il rapporto con i paesi vicini appare già complesso, con forti limitazioni dovute a protezionismi nazionali e incentivi economici per talenti locali, il quadro si fa ancora più difficile quando si analizzano i mercati extraeuropei.

    L’industria cinematografica statunitense, ad esempio, è notoriamente chiusa e altamente competitiva, con un sistema che favorisce compositori già inseriti nel mercato. Il basso numero di compositori italiani che hanno lavorato su progetti di questi mercati suggerisce che le opportunità sono poche e spesso difficili da cogliere.

    Se si considera che meno della metà degli intervistati ha avuto esperienze lavorative extraeuropee, e che queste esperienze sono spesso sporadiche e datate, emerge un dato significativo: il compositore italiano fatica a esportare il proprio talento oltre i confini nazionali ed europei. Questa situazione potrebbe derivare da una combinazione di fattori, tra cui la mancanza di network internazionali, barriere linguistiche, una minore presenza italiana nei grandi circuiti produttivi e una scarsa cultura dell’internazionalizzazione del settore musicale per il cinema.

    Questa domanda porta a riflettere su quanto sia necessario sviluppare strategie per favorire una maggiore apertura al mercato globale, creando opportunità di scambio, collaborazioni e promozione per i compositori italiani all’estero. Il talento non manca, ma occorre costruire le giuste occasioni per valorizzarlo su scala internazionale.

    7.  Come hai trovato i tuoi ultimi tre ingaggi?

    Questa è una domanda fondamentale, soprattutto per i giovani compositori che cercano di entrare nel mondo del cinema e spesso si chiedono come contattare registi e case di produzione, o come ottenere la loro prima opportunità professionale.

    Dai dati raccolti emerge che:

    79% (quasi 80%) degli intervistati ha ottenuto il proprio ingaggio tramite un contatto personale. Questo può significare aver lavorato in passato con il regista, il produttore o un altro membro della produzione, oppure essere stato presentato da un conoscente o un amico nel settore.

    17% ha dichiarato di aver trovato uno dei suoi ultimi tre lavori collaborando con un regista emergente, spesso al suo primo film. Questo tipo di collaborazione, se fruttuosa, può evolversi in un rapporto professionale stabile e duraturo.

    Una percentuale minima (circa 3%) ha ottenuto incarichi tramite agenti o rappresentanti, a conferma del fatto che in Italia l’agente non è una figura centrale nella ricerca di nuovi ingaggi, bensì più utile nella gestione dei contratti e nelle trattative.

    Quasi nessuno ha trovato lavoro partecipando a un concorso o a una gara.

    Questi dati dimostrano che nel mondo del cinema le pubbliche relazioni giocano un ruolo chiave. Non si tratta di raccomandazioni, ma di costruire relazioni professionali e inserirsi attivamente nell’ambiente cinematografico. Avere contatti all’interno del settore aumenta le probabilità di essere coinvolti in progetti futuri, mentre rimanere confinati nel solo ambiente musicale riduce drasticamente le possibilità di lavorare nel cinema.

    Un consiglio per chi vuole entrare in questo mondo è frequentare festival, eventi di settore e ambienti cinematografici, costruire connessioni con registi e produttori, e considerarsi non solo musicisti, ma veri e propri professionisti del cinema con una competenza specifica nella musica.

    In sintesi, il successo nel settore non dipende esclusivamente dal talento musicale, ma anche dalla capacità di essere presenti nel mondo del cinema, stringere relazioni e cogliere le opportunità che ne derivano.

    8. Hai un’agenzia o un agente che ti rappresenta?

    Questa domanda è strettamente collegata alla precedente, poiché approfondisce il ruolo dell’agente nella carriera di un compositore e la sua effettiva utilità nel mercato italiano.

    Dai dati raccolti emerge che:

    • 47% degli intervistati ha dichiarato di non avere mai avuto un agente e di aver sempre lavorato senza.
    • 17,5% ha risposto di aver collaborato con un agente, ma solo per alcuni progetti, senza un’esclusiva.
    • 28% ha detto di non avere mai lavorato con un agente, ma di essere alla ricerca di uno.
    • Quasi l’8% afferma di lavorare sempre ed esclusivamente con un agente.

    Questi numeri confermano che avere un agente non è un requisito indispensabile per lavorare nel settore della musica per il cinema. Anzi, in alcuni casi, si può lavorare più facilmente senza, evitando eventuali limitazioni imposte da un contratto di esclusiva con un’agenzia.

    Il ruolo dell’agente, infatti, non è tanto quello di trovare nuovi ingaggi, quanto piuttosto quello di negoziare i contratti, tutelare il compositore e garantirgli condizioni di lavoro adeguate. In Italia, però, questa figura non è sempre centrale, e molti compositori riescono a ottenere incarichi e sviluppare la propria carriera basandosi su relazioni personali e networking.

    Il consiglio? Se un agente lavora bene e garantisce opportunità concrete, è un valido alleato. Se invece limita le possibilità o non porta risultati, si può tranquillamente lavorare senza. La chiave del successo rimane la capacità di costruire relazioni professionali dirette con registi e produttori, come dimostrato dalla settima domanda.

    9. Qual è stata la media annuale degli incassi ricevuti per i diritti d’autore e diritti connessi negli ultimi anni?

    Questa domanda è particolarmente rilevante per gli aspiranti compositori, in quanto evidenzia che il guadagno derivante da una colonna sonora non si limita solo al compenso iniziale per la composizione della musica. Infatti, esistono diverse fonti di reddito secondarie, come i diritti d’autore e i diritti connessi.

    Oltre al diritto d’autore, gestito da enti come la SIAE o altre associazioni, vi sono anche le royalties derivanti da diverse fonti, tra cui:

    Diritti connessi (ad esempio Nuovo IMAIE)

    Royalties derivanti dalla vendita di supporti fisici, come CD o vinili;

    Streaming digitale e altre piattaforme online.

    Dai dati raccolti emerge una grande variabilità nei guadagni:

    30% degli intervistati dichiara di percepire meno di 1.000 € all’anno;

    7% ha un introito compreso tra 8.000 e 10.000 €;

    10% ha un introito compreso tra 4.000 e 7.000 €;

    11% ha un introito compreso tra 2.000 e 3.000 €;

    9,6% ha un introito oltre i 20.000 €;

    16,3% ha un introito oltre i 10.000 €;

    14,6% riceve oltre 50.000 € all’anno, una cifra significativa che dimostra come alcuni compositori abbiano costruito un catalogo di opere capaci di generare reddito costante.

    Questi numeri mostrano che la carriera del compositore non si esaurisce con il pagamento per la scrittura di una partitura, ma può essere sostenuta da flussi di reddito derivanti dalle royalties e dai diritti d’autore. Un elemento chiave è la longevità delle opere: colonne sonore particolarmente apprezzate possono essere continuamente riproposte, licenziate per altri utilizzi o rimanere in circolazione generando introiti per anni.

    Inoltre, alcuni compositori potrebbero trarre guadagno anche da brani scritti per altri scopi, come sigle televisive o canzoni di successo, che vengono eseguite e trasmesse regolarmente. In sintesi, il reddito derivante dai diritti d’autore può variare enormemente in base alla tipologia di opere composte, alla loro diffusione e all’ampiezza del proprio catalogo musicale.

    10. Quali sono le maggiori difficoltà nel trovare nuovi lavori?

    Questo riguarda anche i giovani, gli aspiranti compositori.

    Le risposte che emergono provengono principalmente da professionisti del settore. La percentuale maggiore, il 35%, afferma che i budget per le colonne sonore sono sempre più bassi.

    Effettivamente, è vero: i budget per le colonne sonore sono sempre più ridotti, soprattutto in Italia e, in generale, in Europa. Sarebbe interessante fare lo stesso tipo di sondaggio anche tra i montatori, ad esempio, chiedendosi quanto guadagna un montatore rispetto a un compositore. Probabilmente, un montatore guadagna più di un compositore, a occhio.

    In generale, però, i budget per le colonne sonore sono decisamente più alti all’estero, negli Stati Uniti, per esempio. Il budget per un film medio in Italia può essere la cifra con cui si finanzia a malapena un progetto indipendente negli Stati Uniti, dove non c’è uno studio alle spalle. Nei grandi studi cinematografici, i budget per la colonna sonora sono generalmente una percentuale fissa, che si aggira intorno al 3% o 2% del budget complessivo del film.

    In Italia, credo che si spenda di più per licenziare canzoni già esistenti da utilizzare nel film che per registrare colonne sonore originali. Questo è qualcosa che andrebbe corretto. Molti di questi budget destinati alla colonna sonora vengono spesi per licenziare brani già esistenti, e mi è capitato di sentire un regista che si vantava di quanto gli fosse costato ottenere una canzone di Hendrix. Se si guarda poi quanto è costato registrare la musica originale per la colonna sonora, la cifra è una frazione minima di quella spesa per licenziare solo 30 secondi di quella canzone. In alcuni casi, una canzone ha un valore narrativo o addirittura sceneggiato, ma spesso non è necessario. È solo un vezzo che il regista o il produttore vogliono concedersi. “Nel mio film c’è la canzone dei Depeche Mode” o di chiunque altro. I registi sono pronti a pagare molto volentieri per questo, ma molto meno per il lavoro del compositore.

    I budget sono sempre più bassi per le colonne sonore e, come abbiamo visto, con 10.000 euro, e a volte anche meno, si riesce a realizzare la colonna sonora di un film. Questo, inevitabilmente, può influire sulla qualità, perché con 5.000 euro si fanno alcune cose, con 10.000 se ne possono fare altre.

    A volte ti dicono: “Ti do 10.000 euro, ma la registrazione te la devi organizzare tu.” Quindi, cosa fai? O registri tutto al pianoforte o con i sintetizzatori, che, peraltro, possono anche dare ottimi risultati. A volte però, ti capita di usare strumenti virtuali, o pagare di tasca tua dei musicisti che vengono in studio a registrare piccole parti.

    La competizione con i compositori affermati è un’altra difficoltà 11,5%. Ci sono compositori che riescono a fare diversi film o serie all’anno, perché hanno già rapporti consolidati con i registi. Questo non è un gioco di giustizia, ma è il mercato che risponde alle esigenze del settore. Se un regista conosce un compositore e si fida di lui, è ovvio che quel compositore lavorerà di più. La realtà è che spesso si parla sempre degli stessi compositori, quelli che lavorano molto perché sono conosciuti e affermati. Questo è un dato di fatto, quindi prendiamolo così. Un altro 31%, che è una percentuale significativa, indica la mancanza di contatti come una delle difficoltà maggiori. Non conoscere nessuno significa non riuscire a trovare nuovi lavori.

    Il 22% lamenta difficoltà nel promuoversi efficacemente.

    Come abbiamo visto, il contatto personale è spesso la chiave. Se si vuole lavorare di più, bisogna espandere la propria rete di contatti. Però, come si fa? Bisogna essere perseveranti, tentare in ogni modo possibile, e soprattutto, bisogna essere molto fortunati. Nel nostro mestiere, essere bravi è importante, ma non fondamentale. Molti lavori che abbiamo fatto non sono stati scelti per la nostra bravura, ma perché abbiamo avuto la fortuna di incontrare la persona giusta al momento giusto, che apprezzava la musica che stavamo facendo. Questo è spesso il segreto del successo. Io, per esempio, posso dire che le cose più importanti che ho fatto nella mia vita sono state per pura fortuna. Ho avuto la fortuna di incontrare quel regista, di riuscire a contattarlo al momento giusto. Questo, purtroppo, è qualcosa che non si può prevedere, ed è questo che vorrei dire soprattutto agli aspiranti compositori.

    11. Quante volte ha partecipato a bandi, concorsi o gare per ottenere un lavoro negli ultimi 5 anni?

    La maggioranza assoluta degli intervistati (77,9%) ha risposto “Mai”, indicando che non ha mai partecipato a una selezione competitiva per ottenere un lavoro. Il 18,3% ha dichiarato di aver partecipato 1-3 volte, una percentuale relativamente bassa ma comunque significativa. Solo una piccola frazione degli intervistati ha partecipato 4-10 volte (giallo) o più di 10 volte (verde), il che suggerisce che la partecipazione a concorsi è un fenomeno poco diffuso

    Questo tipo di iniziative erano piuttosto comuni qualche anno fa, quando le produzioni proponevano: “Stiamo facendo questo film, mandami una proposta per la colonna sonora, fammi ascoltare alcuni brani per capire le tue idee.” Ti mandavano il copione o una scena e si preparavano dei provini sperando incontrassero il gusto di regia e produzione. Chiaramente, il lavoro che piaceva di più a regista e produzione, a volte indipendentemente dal nome del compositore, veniva scelto. Si trattava di un processo meritocratico.

    La maggior parte degli intervistati ha risposto di non aver mai partecipato a una gara, il che è un dato interessante. Se non si partecipa a concorsi, significa che si hanno dei contatti certi, che si chiamano sempre le stesse persone, a volte anche per inerzia. Non c’è nulla di male in questo, anche se la partecipazione a gare potrebbe significare mettersi in gioco, “competere” con altri compositori. Personalmente, io partecipo frequentemente a “concorsi“, “provini” o “gare“, usate il termine che preferite li trovo un interessante stimolo creativo.

    Un esempio riguarda un lavoro che ho fatto con la Rai diversi anni fa. Una serie di compositori avevano inviato dei provini anonimi, senza nome né titolo, e la produzione e il regista hanno ascoltato i vari brani e scelto quelli che piacevano di più, che fortunatamente sono stati i miei. È stato un processo giusto perché si è valutato il lavoro, non l’aspetto o il nome del compositore. Quella è stata l’unica volta che ho lavorato per la Rai, in una serie in prima serata, quindi un progetto anche abbastanza rilevante.

    C’è chi dice che i provini siano inutili perché già si lavora con un regista e quindi sarebbe umiliante partecipare a una gara per continuare una collaborazione che c’è già. Questo è vero, soprattutto in casi come quello di Spielberg e John Williams, dove non è necessario fare provini, perché c’è un legame consolidato. Ma, nei casi in cui non ci siano collaborazioni di lunga data, penso che i provini siano giusti.

    Nonostante possano risultare “antipatici” e ci mettano poco a nostro agio questi concorsi possono comportare, essi offrono un’opportunità di valutazione imparziale e meritocratica.

    12. Quanto tempo dedichi alla promozione personale o alla ricerca di nuovi contatti?

    71,2% delle persone dedica meno di 5 ore a settimana alla promozione personale o alla ricerca di nuovi contatti.
    21,2% investe tra 5 e 10 ore a settimana in questa attività.
    Una percentuale minore dedica più tempo:

    • Il giallo rappresenta chi impiega tra 10 e 20 ore a settimana.
    • Il verde indica chi si dedica più di 20 ore a settimana.

    Molti quindi spendono meno di un’ora al giorno nella promozione della propria attività. E poi ci si lamenta di non avere abbastanza contatti? Ma, come abbiamo visto, la maggior parte dei lavori arriva tramite contatti preesistenti. Se si dedica poco tempo alla promozione di sé o alla ricerca di nuovi contatti, allora ci potrebbe essere un problema.

    Potremmo pensare che molti compositori guadagnino talmente tanti soldi o abbiano talmente tanti lavori che non hanno bisogno di cercare nuovi contatti. Ma questa è una percentuale minima, come abbiamo detto. La maggior parte delle persone, invece, ammette di promuoversi poco, ma allo stesso tempo lamenta la mancanza di contatti.

    Alcuni rispondono di dedicare tra le 5 e le 10 ore a settimana, il che rappresenta circa 1 ora al giorno, un tempo che possiamo considerare medio, con il 21% delle risposte. Altri rispondono di dedicare tra le 10 e le 20 ore a settimana. Anche se questa percentuale è comunque alta, ci sono anche coloro che spendono più tempo in attività di pubbliche relazioni che nel proprio lavoro di composizione. Quindi, si può dire che alcune persone potrebbero dedicare troppo tempo alla promozione e troppo poco alla musica stessa, il che potrebbe altrettanto influire negativamente sul loro lavoro creativo.

    13. Quali sono i principali ostacoli che incontri nel tuo lavoro quotidiano come compositore?

    Uno dei principali ostacoli che affrontano i compositori, secondo il 49 % delle risposte, è il budget limitato. I budget bassi delle produzioni musicali obbligano spesso i compositori a “inventarsi” soluzioni creative, ma questo processo può far perdere molto tempo e risorse, anche perchè spesso, a fronte di budget limitati ci sono richieste sproporzionate da parte delle produzioni

    Un altro problema rilevante è la mancanza di visibilità e riconoscimento (quasi 30%). In generale, il compositore non è considerato l’elemento trainante del film quando si parla di promozione. Questo, naturalmente, è un aspetto difficile da accettare, specialmente quando il lavoro di un compositore viene visto come una parte “necessaria” ma poco riconosciuta. La visibilità e il riconoscimento sono cruciali non solo per il rispetto del nostro ruolo ma anche per il continuo ampliamento dei contatti professionali. Se non ci viene riconosciuto il nostro lavoro, ci risulta difficile farci conoscere e ottenere nuovi incarichi.

    Poi, c’è la comunicazione scarsa (15,4%) con registi e produttori. La mancanza di dialogo e di comprensione reciproca può portare a conflitti, rendendo più difficile lavorare insieme in modo produttivo. Questo spesso si collega alla percezione che il nostro ruolo non venga rispettato come meriterebbe. Se non c’è riconoscimento, è facile che si verifichino incomprensioni e difficoltà nella relazione professionale.

    Infine, c’è il rischio di accettare lavori a basso budget (8,7%) per necessità, soprattutto per rimanere attivi nel campo e fare almeno un film all’anno. A volte, per non restare senza progetti, si accettano offerte che non soddisfano i propri standard economici. Questo crea un circolo vizioso, dove la scarsità di risorse porta a una qualità più bassa nel lavoro e a un minor rispetto da parte delle altre figure professionali, che potrebbero considerare i compositori meno importanti rispetto ad altri professionisti del settore.

    Questi problemi non solo influenzano la qualità del lavoro ma anche la crescita professionale a lungo termine.

    14. Come valuti il futuro del tuo lavoro come compositore di musica da film in Italia?

    Il futuro del lavoro come compositore di musica da film in Italia appare incerto per una percentuale altissima del 58,7%. Questo dato è sorprendente, ma direttamente collegato ai dati della domanda precedente. Questi elementi fanno emergere un quadro piuttosto negativo, in cui non sembra esserci una direzione chiara per il futuro della professione.

    Spesso si parla dell’intelligenza artificiale come uno dei rischi attuali del nostro lavoro ma a quanto pare i veri problemi al momento sono altri.

    In generale, il futuro appare piuttosto negativo, con molta negatività e malessere legati a difficoltà professionali e strutturali del settore. Tuttavia, c’è anche una piccola percentuale di ottimismo (23,1%), ma sembra che questo ottimismo non sia diffuso tra la maggior parte dei compositori. Anzi, il 17,3 % dei professionisti dichiara di vedere il futuro in maniera del tutto negativa.

    Questo scenario dipinge un quadro di una professione che manca di certezze e in cui sono necessarie cambiamenti significativi per migliorare le condizioni di lavoro e abbattere le difficoltà che i compositori si trovano ad affrontare. La chiave sembra essere un sforzo collettivo per cercare di cambiare questa realtà e costruire un futuro migliore per la musica da film in Italia.

    15. Quanto ti senti supportato dalla Comunità cinematografica italiana?

    Il 48,1% dei compositori che ha risposto al sondaggio si sente per niente supportato dalla comunità cinematografica italiana. Poi c’è il 44,2% che si sente poco supportato, mentre solo un 7,7% dice di sentirsi abbastanza supportato. Questi numeri sono davvero emblematici di quanto ci sentiamo poco riconosciuti e apprezzati in un settore che dovrebbe, invece, valorizzare il nostro lavoro.

    Nonostante esistano delle comunità cinematografiche all’estero, in Italia vedo una grande carenza. Non c’è quel senso di appartenenza che esiste in altre realtà. All’estero, compositori, registi e altre figure del settore si confrontano di più, si riuniscono per scambiarsi idee e crescere insieme. In Italia, invece, una volta che il film è finito, sembra che il nostro lavoro non venga più considerato. Non abbiamo quella rete di supporto che ci aiuti a sentirci parte di un processo creativo collettivo.

    Anche la comunicazione con registi e produttori è spesso scarsa. Non ci sentiamo parte integrante del progetto, e questo alimenta un isolamento che rende ancora più difficile crescere professionalmente. Mi sono reso conto che in Italia, purtroppo, non c’è quel supporto che ci permetta di collaborare realmente. Per questo, anche se in Italia ci sono delle realtà, come l’ACMF ( Associazione Compositori Musica per Film), che cerca di unire i compositori, nel complesso la comunità cinematografica italiana non è abbastanza solida e supportiva. Anche se abbiamo delle realtà come questa, c’è bisogno di un maggiore consolidamento e un supporto reciproco più forte tra tutti noi, il supporto all’interno del settore cinematografico italiano resta insufficiente rispetto a quello che si vede in altri paesi. Come compositore, spero che, con il tempo, questa situazione cambi e che riusciremo a rafforzare la nostra comunità.

    16. Qual è il principale strumento che utilizzi per promuoverti?

    Non sorprende che la maggior parte (48%) si affidi anche ai social media, con Facebook, Instagram e altre piattaforme come YouTube. Ormai, i social sono diventati strumenti quasi indispensabili per farsi conoscere e raggiungere un pubblico più vasto.

    Il 33% dei compositori si promuove attraverso il network di contatti, quindi tramite contatti che già possiede. Questo conferma ciò che avevamo già visto prima: i contatti preesistenti sono fondamentali per ottenere lavori e opportunità. Molti compositori, infatti, si promuovono tramite il passaparola, proprio come si faceva un tempo, quando le relazioni erano più personali e dirette.

    Il sito web personale è stato citato da solo l’11% dei rispondenti, il che significa che, sebbene possa essere utile, non è il principale canale di promozione per la maggior parte di noi. Allo stesso modo, la partecipazione a eventi e festival è stata indicata solo dal 7,7%. Questi eventi dal vivo, pur essendo un’opportunità di confronto e visibilità, non sono la prima scelta per la maggior parte dei compositori. Credo che un equilibrio tra tutti questi strumenti possa essere utile per costruire una presenza solida e diversificata nel mondo del cinema e della musica per film.

    17. Come ti identifichi in termini di genere?

    I dati di questa domanda sono stati abbastanza prevedibili. Il 89% dei compositori che hanno risposto al sondaggio si identifica come uomo, mentre solo il 7,8% si identifica come donna. La percentuale di compositrici, quindi, è molto bassa, quasi minima. È un dato che mi sconvolge, soprattutto considerando che nel cinema ci sono molte montatrici e alcune registe (anche se in percentuale minore), ma quando si parla di composizione musicale, le donne sono veramente poche.

    Questo dato mette in evidenza una disparità di genere nel nostro settore. Personalmente, credo che il mestiere di compositore non debba essere legato al genere, ma solo alla passione e alla capacità creativa. Invito tutte le donne che sono interessate alla musica per film a dedicarsi a questa professione, perché è un lavoro meraviglioso, che non conosce limiti di genere.

    Inoltre, una riflessione che faccio è che, se ci fossero più gare anonime (come accade in alcune audizioni orchestrali), forse ci sarebbe una maggiore equità e le compositrici avrebbero più possibilità di emergere. Questo è qualcosa che non possiamo sapere con certezza, dato che le gare anonime in Italia sono molto rare. Ma credo che se fosse possibile giudicare solo sulla qualità musicale, senza pregiudizi di genere, potremmo vedere una maggiore diversità anche tra i compositori.

    18. Ha una disabilità fisica o mentale che desideri segnalare?

    Questa domanda mi interessava particolarmente, e forse qualcuno potrebbe chiedersi “Cosa c’entra?”, ma io credo che, quando parliamo di discriminazioni, non dobbiamo limitarci solo al genere, ma dobbiamo considerare anche altre forme di discriminazione, come quelle legate alle disabilità. Un compositore con una disabilità fisica o mentale, evidente o meno, viene trattato allo stesso modo rispetto agli altri? Viene chiamato e ingaggiato allo stesso modo, senza pregiudizi? È importante sollevare questa riflessione, perché, come nel caso delle donne compositrici di cui parlavamo prima, le discriminazioni non dovrebbero mai fare parte del nostro settore, e dovrebbero essere eliminate, sia che riguardino il genere che altre caratteristiche personali.

    Nel nostro sondaggio, il 92,3% delle persone ha dichiarato di non avere disabilità. Una piccola percentuale ha preferito non rispondere, il che è comprensibile. La percentuale di chi ha una disabilità fisica o mentale è minima, ma la domanda rimane interessante. Mi chiedo se, in un mondo ideale, un compositore con disabilità potesse essere scelto alla pari degli altri, magari partecipando a provini anonimi, dove l’unico criterio di selezione sia la qualità musicale e non fattori come l’aspetto fisico o altre caratteristiche personali.

    Non è facile sapere come sarebbe, ma è un concetto che merita attenzione. In un’industria in cui la creatività e la competenza dovrebbero essere al centro, sarebbe importante garantire che tutte le persone, indipendentemente da eventuali disabilità, abbiano la stessa opportunità di emergere e di farsi notare.

    La riflessione sul provino anonimo si collega a questo discorso, come nel caso delle donne compositrici di cui parlavamo prima: se le selezioni fossero basate esclusivamente sul talento musicale, senza pregiudizi legati al genere o alle disabilità, potremmo davvero ottenere una selezione più equa e diversificata.

    19. In che modo il tuo lavoro come compositore influisce sul tuo benessere mentale?

    Mi interessa molto il tema del benessere mentale, e sono un forte sostenitore di una buona salute mentale, soprattutto nel mondo del cinema, dove ci sono molte difficoltà, sia legate alla pressione che alla gestione dello stress. Non è raro che il lavoro di compositore, come molti lavori nel settore, comporti sfide che possono influenzare negativamente il nostro benessere mentale.

    Nel sondaggio, il 52,9% ha risposto che il lavoro di compositore ha un impatto positivo, ma stressante sulla propria salute mentale. Molti, infatti, descrivono il lavoro come soddisfacente, ma anche come una fonte di grande stress. Quasi il 35,6% dei rispondenti ha affermato che il lavoro dà soddisfazione e motivazione, quindi si può dire che una parte significativa dei compositori vede questo lavoro come fonte di gratificazione. Tuttavia, è un dato da non sottovalutare che una percentuale rilevante, pari a 5,8%, ha dichiarato che il loro lavoro non ha particolari effetti positivi o negativi sul benessere mentale. Anche se questa cifra è piccola, bisogna ricordare che non è insignificante.

    C’è anche una percentuale che purtroppo sente che il lavoro influisce negativamente sul benessere mentale, ma è una percentuale più bassa. La vera sfida, però, sta nel fatto che lo stress e le difficoltà legate al lavoro di compositore possono arrivare da aspetti inaspettati: progetti che non vanno come sperato, rapporti difficili con i registi, bassi compensi o condizioni di lavoro sfavorevoli.

    Non bisogna mai dimenticare che il nostro lavoro può sembrare affascinante, ma in realtà presenta lati oscuri che non tutti vedono. E quando questi lati negativi si accumulano, come nei casi di malesseri psicologici, la pressione può essere davvero pesante. È importante essere consapevoli che il benessere mentale non è lineare e che ci possono essere alti e bassi nel corso della carriera. Ci sono momenti di grande soddisfazione, ma anche momenti difficili che possono far sentire un compositore esausto o addirittura farlo pensare di voler abbandonare tutto.

    Per questo motivo, credo che sarebbe utile fare una sorta di check-up mentale ogni tanto, non solo una volta, ma magari ogni sei mesi o annualmente. Un momento per fermarsi, riflettere e chiedersi se davvero il lavoro ci sta dando ciò che desideriamo, se stiamo vivendo un periodo positivo o se è il caso di prendere una pausa e cercare un nuovo approccio.

    Il benessere mentale dei compositori, ma anche di tutti i professionisti del cinema, va assolutamente preservato. La creatività e la passione per il nostro mestiere devono rimanere in primo piano, ma senza sacrificare il nostro benessere psicologico.

    20. Devi integrare il tuo reddito come compositore con altri lavori?

    Questa è una domanda molto significativa, soprattutto per i futuri compositori. I dati sono abbastanza chiari: il 61,5% degli intervistati ha risposto di sì, indicando che per sopravvivere e continuare a fare il compositore, spesso si è costretti ad integrare il reddito con altri lavori. Questi lavori, per lo più, sono legati alla musica, come insegnamento, arrangiamento, produzione musicale, e così via. C’è anche chi svolge lavori non artistici, al di fuori della musica, per mantenersi.

    La percentuale di chi non ha bisogno di integrare il reddito è piuttosto bassa, solo il 28,2% ha risposto che il lavoro di compositore è la loro unica fonte di reddito.

    Parlando di un campione di compositori professionisti, che hanno lavorato almeno su un film nell’ultimo anno (e non su un progetto di 10 o 15 anni fa), risulta che la maggioranza (circa il 70%) è costretta a fare un secondo lavoro. Questo è un dato importante per capire la realtà del mestiere. Pochi compositori riescono a vivere esclusivamente della composizione per il cinema.

    Quindi, se da un lato il lavoro di compositore è una carriera affascinante, dall’altro lato è necessario essere realisti. È importante sapere che la realizzazione economica potrebbe non arrivare subito e che molti professionisti del settore sono costretti a fare altro per sostenersi.

    Futuri compositori, vi invito a essere consapevoli di questa difficoltà, non per scoraggiarvi, ma per farvi capire che la strada potrebbe essere più complessa di quanto sembri.

    Dall’analisi dei dati raccolti nel sondaggio emerge un quadro chiaro della professione del compositore per il cinema in Italia. Si evidenzia una realtà frammentata, caratterizzata da una certa continuità lavorativa per molti professionisti, ma anche da notevoli difficoltà economiche e di accesso ai mercati internazionali.

    Si deduce che il settore, pur offrendo opportunità, presenta una forte precarietà dovuta ai bassi compensi, alla difficoltà nel costruire relazioni professionali e alla crescente importanza dello streaming rispetto alla distribuzione cinematografica tradizionale. I compositori italiani faticano a inserirsi nel mercato europeo e internazionale, in parte per protezionismi nazionali e in parte per la scarsa promozione delle proprie competenze all’estero. Inoltre, la professione è fortemente legata ai contatti personali, mentre il ruolo degli agenti risulta marginale rispetto ad altri settori creativi.

    La scarsa valorizzazione del ruolo del compositore è un altro elemento critico: i budget destinati alle colonne sonore sono limitati e spesso inferiori a quelli stanziati per licenze musicali preesistenti. Questo contribuisce alla difficoltà di mantenere una carriera esclusivamente basata sulla composizione per film, costringendo molti professionisti a diversificare le proprie attività. Infine, la percezione di un futuro incerto e lo scarso supporto della comunità cinematografica incidono sul benessere mentale dei compositori, rendendo ancora più difficile la sostenibilità della professione.

    Consigli per i compositori attuali e futuri

    1. Diversificare le fonti di reddito: Oltre alla composizione per il cinema, è utile esplorare altre opportunità come la produzione musicale per serie TV, documentari, pubblicità e videogiochi. La gestione dei diritti d’autore e la creazione di un catalogo di opere possono garantire un’entrata economica più stabile nel tempo.
    2. Investire nelle relazioni professionali: Il networking è fondamentale per ottenere incarichi. Frequentare festival cinematografici, eventi di settore e partecipare a masterclass può aiutare a costruire connessioni con registi e produttori, aumentando le possibilità di ingaggio.
    3. Sviluppare una presenza internazionale: Data la difficoltà di accesso al mercato europeo ed extraeuropeo, è importante cercare collaborazioni internazionali, partecipare a concorsi globali e promuovere attivamente il proprio lavoro su piattaforme online per aumentare la visibilità all’estero.
    4. Adattarsi al cambiamento dell’industria audiovisiva: Il passaggio dallo schermo cinematografico allo streaming impone nuove strategie di lavoro. Affrontare le esigenze delle piattaforme digitali, comprendere le tendenze della serialità e sviluppare competenze tecniche nell’uso di software avanzati possono fare la differenza nel lungo termine.
    5. Migliorare la negoziazione contrattuale: La consapevolezza del valore del proprio lavoro è essenziale per evitare di accettare compensi troppo bassi. Anche senza un agente, è utile approfondire le dinamiche contrattuali e, se necessario, rivolgersi a consulenti specializzati.
    6. Curare la propria promozione: La presenza sui social media, la creazione di un sito web professionale e l’uso di piattaforme di portfolio musicale possono facilitare il contatto con nuovi potenziali clienti. La promozione attiva del proprio lavoro è cruciale per emergere in un mercato altamente competitivo.
    7. Gestire lo stress e il benessere mentale: La precarietà della professione e la pressione creativa possono essere difficili da gestire. È importante bilanciare il lavoro con il benessere personale, evitando di accettare condizioni di lavoro eccessivamente penalizzanti e cercando supporto nella comunità di colleghi.
  • Music and Death: The Composer Facing Their Final Work

    Music is one of the most ephemeral yet enduring art forms. A sound exists only in the instant it is produced, yet a musical work can survive for centuries, rendering its creator immortal. But what does it mean to compose music in the face of the awareness of death? How much does the fear of the end influence creativity, and how much does the desire to leave an immortal legacy push composers to write until their last breath?

    The Agony of Creation: Between Urgency and Fear

    Many composers have experienced art as a battle against time, a duel with death that inexorably approaches. Writing a final work means facing the agonizing doubt: will it live up to my legacy? It is not only the fear of incompleteness but the even deeper fear of composing something definitive and, at the same time, unworthy of their own legend.

    Beethoven faced this fear viscerally. In the Heiligenstadt Testament (1802), written when his deafness was becoming irreversible, he confessed his desire to commit suicide but declared that only music prevented him from doing so. “Only my art held me back. It seemed impossible to leave the world before I had given all that I felt was growing within me.” Here, we perceive the fundamental tension between creation and death: composing is not just an artistic act but an act of resistance against self-annihilation.

    Yet, the awareness of the end is not always a driving force; sometimes, it is paralyzing. One wonders: is it better to write nothing rather than leave an unworthy testament? Some composers have profoundly experienced this fear. Brahms, for example, after composing his Fourth Symphony (1885), feared he could no longer surpass himself and declared he wanted to stop composing. Maurice Ravel, too, afflicted by a neurological disease, felt his mind was full of music he could no longer transcribe, trapped in an agonizing awareness.

    The Unfinished Work: Silence That Becomes Immortal

    Death can brutally interrupt the creative process, leaving behind a fragment of something that will never be completed. Some of these unfinished works have become legends, almost more powerful than a complete work: Schubert’s Ninth Symphony, Mozart’s Requiem, Mahler’s Tenth Symphony. Their fascination lies precisely in the unresolved, in the mystery of what they might have been.

    Mahler, obsessed with the superstition that no composer could surpass their Ninth Symphony (since Beethoven and Bruckner had stopped there), tried to trick fate by not numbering his Das Lied von der Erde as a symphony. But when he then wrote the Ninth, he died before completing the Tenth. Perhaps fate had taken its revenge.

    Writing a final work is like walking a tightrope over the abyss: there is the desire to leave something definitive, but also the terror that this something might be a failure.

    Baden-Powell’s Message and the Composer’s Fate

    This anxiety about the final act does not belong only to composers but to anyone who faces their mortality with clarity. A significant example comes from Robert Baden-Powell’s final message to the Scouts, in which he quotes Captain Hook from Peter Pan:

    “Dear Scouts, if you have seen the play Peter Pan, you will remember that the pirate captain repeated his last speech on every occasion, fearing he would not have time to deliver it when his moment to die truly arrived.”

    Hook, like the composer, fears that every endeavor might be the last and wants to ensure he leaves a mark. Every creation could be his final testament, leading to profound hesitation. If the last work must define him, it must be perfect.

    Do We Write Out of Fear of Death or Hope for Immortality?

    Perhaps music is the only way humanity has found to exorcise its own transience. Every composer knows that time is an invincible adversary, but their work can escape the dust, cross centuries, and become eternal memory. Bach, Mozart, Beethoven: all dead, yet so present.

    Music is written out of fear of death, to avoid being forgotten. But perhaps, more than anything, it is written because, in the moment the music plays, death does not exist.

    For composers who write film music, the challenge of artistic legacy takes on a different but equally crucial dimension. Unlike classical composers who create autonomous works, film composers are part of a larger production where their music serves the film rather than standing alone. This subordination to another medium makes the selection of projects fundamental to shaping their careers.

    A film composer is, in many ways, an employee: the film does not belong to them, and their job is to enhance the director’s vision. However, their career is defined by the films they choose to work on. The success of a film often dictates the recognition and future opportunities for a composer, making every choice a crucial step.

    Just as a classical composer may hesitate before writing their final work, knowing it might be their last, a film composer must be careful not to attach their name to a project that does not align with their artistic sensibility. No one would want their last work to be remembered as part of a bad film. In an industry where perception and reputation are paramount, every project can define the trajectory of a career.

    Thus, choosing the right film is not merely about financial stability but about ensuring that one’s artistic voice is not lost in mediocrity. After all, in film music, as in life, one never knows which work might be the last.