NEWS

  • Musica e Morte: Il Compositore di Fronte all’Ultima Opera

    La musica è una delle forme d’arte più effimere e, al tempo stesso, più durature. Un suono esiste solo nell’istante in cui viene prodotto, eppure un’opera musicale può sopravvivere per secoli, rendendo immortale il suo creatore. Ma cosa significa scrivere musica di fronte alla consapevolezza della morte? Quanto il timore della fine influenza la creatività, e quanto il desiderio di lasciare un’eredità immortale spinge i compositori a scrivere fino all’ultimo respiro?

    L’agonia della creazione: tra urgenza e paura

    Molti compositori hanno vissuto l’arte come una battaglia contro il tempo, un duello con la morte che si avvicina inesorabile. Scrivere un’ultima opera significa affrontare il dubbio angosciante: sarà all’altezza della mia eredità? Non è solo il timore dell’incompiutezza, ma la paura ancora più profonda di scrivere qualcosa di definitivo e, allo stesso tempo, non all’altezza della propria stessa leggenda.

    Beethoven affrontò questa paura in modo viscerale. Nel Testamento di Heiligenstadt (1802), scritto quando la sordità stava diventando irreversibile, confessò il desiderio di suicidarsi, ma dichiarò che solo la musica lo tratteneva dal farlo. “Soltanto la mia arte mi ha trattenuto. Mi sembrava impossibile lasciare il mondo prima di aver dato tutto ciò che sentivo germogliare dentro di me.” Qui si coglie la tensione fondamentale tra creazione e morte: comporre non è solo un atto artistico, ma un atto di resistenza contro l’annullamento del sé.

    Eppure, la consapevolezza della fine non è sempre un motore, a volte è una paralisi. Ci si chiede: è meglio non scrivere nulla piuttosto che lasciare un testamento indegno? Alcuni compositori hanno vissuto questo timore in modo profondo. Brahms, ad esempio, dopo aver scritto la sua Quarta Sinfonia (1885), temeva di non riuscire più a superarsi e dichiarò di voler smettere di comporre. Anche Maurice Ravel, afflitto da una malattia neurologica, sentiva che la sua mente era piena di musica che non riusciva più a trascrivere, prigioniero di una consapevolezza atroce.

    L’opera incompiuta: il silenzio che diventa immortale

    La morte può interrompere brutalmente il processo creativo, lasciando dietro di sé un frammento di qualcosa che non sarà mai compiuto. Alcune di queste opere incompiute sono diventate leggende, quasi più potenti di un’opera intera: la Nona Sinfonia di Schubert, il Requiem di Mozart, la Decima Sinfonia di Mahler. Il loro fascino sta proprio nell’irrisolto, nel mistero di ciò che avrebbero potuto essere.

    Mahler, ossessionato dalla superstizione che nessun compositore potesse superare la propria Nona Sinfonia (poiché Beethoven e Bruckner si erano fermati lì), si sforzò di ingannare il destino non numerando la sua Das Lied von der Erde come Sinfonia. Ma quando poi scrisse la Nona, morì prima di completare la Decima. Il destino, forse, si era preso la sua rivincita.

    Scrivere un’ultima opera è come camminare su una corda tesa sopra l’abisso: c’è il desiderio di lasciare qualcosa di definitivo, ma anche il terrore che quel qualcosa sia un fallimento.

    Il messaggio di Baden-Powell e il destino del compositore

    Questa ansia dell’ultimo atto non appartiene solo ai compositori, ma anche a chiunque affronti la propria mortalità con lucidità. Un esempio significativo ci viene dall’ultimo messaggio di Robert Baden-Powell agli scout, in cui cita Capitan Uncino di Peter Pan:

    “Cari Scouts, se avete visto la commedia Peter Pan vi ricorderete che il capo dei Pirati ripeteva ad ogni occasione il suo ultimo discorso, per paura di non avere il tempo di farlo quando fosse giunto per lui il momento di morire davvero.”

    Uncino, come il compositore, teme che ogni impresa sia l’ultima e vuole assicurarsi di lasciare un segno. Ogni creazione potrebbe essere il suo testamento finale, e questo porta a una profonda esitazione. Se l’ultima opera deve definirlo, deve essere perfetta.

    Si scrive per paura della morte o per speranza d’immortalità?

    Forse la musica è l’unico modo che l’uomo ha trovato per esorcizzare la propria caducità. Ogni compositore sa che il tempo è un avversario invincibile, ma la sua opera può sfuggire alla polvere, attraversare i secoli, diventare memoria eterna. Bach, Mozart, Beethoven: tutti morti, eppure così presenti.

    Si scrive musica per paura della morte, per non essere dimenticati. Ma forse, più ancora, si scrive perché, nel momento in cui la musica suona, la morte non esiste.

    Per i compositori che scrivono musica per il cinema, la sfida dell’eredità artistica assume una dimensione diversa ma altrettanto cruciale. A differenza dei compositori classici, che creano opere autonome, i compositori di colonne sonore fanno parte di una produzione più ampia, in cui la loro musica è al servizio del film anziché esistere come opera indipendente. Questa subordinazione a un altro medium rende la scelta dei progetti fondamentale per plasmare la loro carriera.

    Un compositore di musica da film è, in molti modi, un impiegato: il film non gli appartiene e il suo compito è quello di valorizzare la visione del regista. Tuttavia, la sua carriera è definita dai film a cui sceglie di collaborare. Il successo di un film spesso determina il riconoscimento e le opportunità future per un compositore, rendendo ogni scelta un passo decisivo.

    Così come un compositore classico può esitare prima di scrivere la sua ultima opera, sapendo che potrebbe essere il suo testamento finale, un compositore cinematografico deve essere cauto nel legare il proprio nome a un progetto che non sia in linea con la sua sensibilità artistica. Nessuno vorrebbe che il proprio ultimo lavoro fosse ricordato come parte di un brutto film. In un’industria in cui la percezione e la reputazione sono fondamentali, ogni progetto può definire la traiettoria di una carriera.

    Dunque, scegliere il film giusto non è solo una questione di stabilità economica, ma anche di preservare la propria voce artistica, evitando che venga soffocata dalla mediocrità. Dopotutto, nella musica da film, come nella vita, non si può mai sapere quale sarà l’ultimo lavoro.

  • La Sincronizzazione Musicale (Music Sync): Una Guida per Compositori

    La sincronizzazione musicale, o sync licensing, è il processo di abbinamento di una composizione musicale con un’opera visiva—che sia un film, una serie TV, una pubblicità, un trailer o un video sui social media. Per un compositore, il sync può rappresentare un’importante fonte di reddito, oltre che un’opportunità per far conoscere il proprio lavoro a un pubblico vasto.

    Chi Sono i Protagonisti del Sync Licensing?

    Il mondo del sync è popolato da diverse figure professionali che giocano un ruolo cruciale nell’industria. Il music supervisor è una delle figure più importanti: è il responsabile della selezione musicale per un progetto audiovisivo e collabora con il regista o il produttore per scegliere la musica più adatta a una scena. A supportarlo ci sono i music coordinator, che si occupano della gestione operativa della musica, e i sync agent, professionisti che lavorano con artisti e case discografiche per trovare opportunità di sincronizzazione.

    Anche le music libraries e le music production houses svolgono un ruolo fondamentale: mentre le prime offrono un catalogo pre-clearato di brani pronti per l’uso, le seconde si specializzano nella creazione di musica originale su commissione.

    Un compositore può lavorare direttamente con queste figure oppure affidarsi a un publisher, una casa editrice musicale che gestisce i diritti delle sue opere e si occupa della loro monetizzazione.

    Tipologie di Contratti e Licenze

    Quando un brano viene selezionato per una sincronizzazione, viene stipulato un Sync Agreement, un contratto che stabilisce i termini dell’accordo tra il detentore dei diritti musicali e la produzione audiovisiva. Esistono due principali categorie di contratti:

    • Exclusive Agreement: il compositore affida in via esclusiva il proprio brano a una società di sync, che diventa l’unico intermediario autorizzato a licenziarlo.
    • Non-Exclusive Agreement: il compositore mantiene il diritto di licenziare la stessa traccia attraverso più agenzie o librerie musicali.

    Il Sync License è invece il documento legale che concede il diritto di usare un brano in un progetto audiovisivo. Questo può essere accompagnato da un Buyout, ovvero un pagamento una tantum che garantisce alla produzione il diritto perpetuo di utilizzare il brano senza ulteriori pagamenti di royalties.

    Un altro elemento da tenere a mente è il MFN Clause (Most Favored Nations), che garantisce che tutti i soggetti coinvolti in una licenza ricevano lo stesso trattamento economico, evitando favoritismi.

    Le Royalties e la Monetizzazione

    Quando un brano viene sincronizzato, il compositore può guadagnare attraverso:

    • Sync Fee: il compenso diretto per l’utilizzo della traccia.
    • Performance Royalties: i proventi derivanti dalla diffusione pubblica del brano, raccolti dalle Performing Rights Organizations (PROs) come ASCAP, BMI o SESAC.

    Per garantire che il compositore riceva il giusto compenso, è essenziale la compilazione del Cue Sheet, un documento che registra tutti i brani utilizzati in una produzione, specificando autori e percentuali di proprietà.

    Aspetti Creativi e Tecnici

    Nella creazione di musica per il sync, ci sono alcune regole da seguire per aumentare le possibilità di licenza. Ad esempio, molte produzioni preferiscono brani con un Button Ending, un finale netto e deciso che facilita il montaggio. Inoltre, le musiche devono essere facilmente editable, cioè adattabili a differenti lunghezze di scena.

    Un aspetto fondamentale è la rapidità nel rispondere a un Brief, ovvero una richiesta di musica da parte di un supervisore o una casa di produzione. I brief contengono dettagli come il mood richiesto, i riferimenti sonori e il budget disponibile. Spesso, i compositori lavorano su Spec Work, creando musica senza garanzia di essere scelti, anche se a volte possono ricevere un Demo Fee come compenso minimo.

    Per chi desidera entrare nel settore, può essere utile firmare accordi con Micro Sync Companies, piccole aziende che gestiscono licenze per contenuti di nicchia, come video YouTube, social media o cortometraggi, offrendo compensi ridotti ma con un alto volume di utilizzi.

    Gestione dei Diritti e degli Accordi

    Un compositore che lavora nel sync deve essere consapevole della distinzione tra i diritti di composizione e i diritti del master recording. Il primo riguarda la scrittura della musica e appartiene all’autore e al publisher; il secondo è legato alla registrazione stessa ed è spesso detenuto da una label o da un produttore.

    Alcuni compositori lavorano con One Stop Agreements, che semplificano la gestione dei diritti, permettendo a un’unica entità di autorizzare le licenze. In alternativa, ci sono i Pre-Cleared Tracks, brani già pronti per la sincronizzazione perché i diritti sono stati anticipatamente risolti.

    Inoltre, è importante gestire con precisione la suddivisione dei crediti e delle percentuali di proprietà attraverso documenti come i Split Sheets, che stabiliscono in modo chiaro chi ha contribuito alla scrittura e in che misura.

    Strategie per il Successo

    Per un compositore che vuole lavorare nel sync, la strategia vincente include:

    1. Creare un catalogo vario e professionale, con tracce che spaziano tra diversi generi e mood.
    2. Entrare in contatto con music supervisors e sync agents, inviando la propria musica in modo mirato.
    3. Iscriversi a una PRO, per assicurarsi di ricevere le royalties dovute.
    4. Partecipare a Spotting Sessions, incontri tra musicisti e produttori per individuare il giusto posizionamento della musica nei progetti.
    5. Evitare esclusività premature, a meno che non ci sia un accordo particolarmente vantaggioso.

    Ora approfondiamo un aspetto cruciale per i compositori: il flusso del denaro nel sync licensing. A seconda del tipo di opportunità di sync a cui si lavora, le fonti di reddito possono variare considerevolmente. Questo articolo analizzerà le principali forme di guadagno nel sync, fornendo un quadro chiaro su come monetizzare efficacemente la propria musica.


    Le Due Principali Forme di Pagamento nel Sync

    La maggior parte dei compositori che lavorano nel sync licensing guadagna attraverso due canali principali: gli upfront sync fees e le performance royalties.

    1. Upfront Sync Fees (Compenso Anticipato di Sincronizzazione)

    L’upfront sync fee è il compenso che viene pagato al proprietario del copyright per il diritto di utilizzare la composizione in un progetto audiovisivo. Questo pagamento varia a seconda di diversi fattori, tra cui:

    • Tipologia di utilizzo (TV, pubblicità, film, trailer, social media, ecc.).
    • Durata della licenza (breve termine o perpetuo).
    • Territorio (diritti locali o internazionali).
    • Tempistiche di pagamento (immediate o dilazionate).

    Non tutte le licenze di sincronizzazione prevedono un upfront fee: alcune sono esclusivamente basate su pagamenti retroattivi (backend royalties). Tuttavia, quando un upfront sync fee viene concesso, può variare da poche centinaia di dollari fino a cifre a sei o sette zeri, a seconda del prestigio del progetto.

    Tempistiche di Pagamento

    Dopo che una licenza è stata approvata, la produzione potrebbe impiegare fino a 90 giorni per versare il compenso al detentore dei diritti. Se il compositore lavora con una sync library o un’agenzia, il contratto può stabilire che il pagamento del compenso venga effettuato entro 30-90 giorni dalla ricezione della somma da parte dell’intermediario.


    2. Performance Royalties (Royalties di Esecuzione)

    Le performance royalties, note anche come backend royalties, vengono accumulate ogni volta che un contenuto audiovisivo che include la tua musica viene trasmesso in TV, al cinema o su piattaforme di streaming.

    Queste royalties vengono raccolte dalle Performance Rights Organizations (PROs), come ASCAP, BMI, SESAC (negli Stati Uniti) o SIAE (in Italia). I fattori che determinano l’importo delle royalties includono:

    • Numero di trasmissioni e pubblico raggiunto.
    • Distribuzione globale dello show.
    • Peso della traccia rispetto all’intero catalogo PRO.

    Cue Sheet: Il Documento Chiave per le Royalties

    Il pagamento delle performance royalties si basa sulle cue sheets, documenti compilati dalle case di produzione che registrano l’uso della musica in ogni episodio o film. Questi documenti vengono inviati alle PROs, che calcolano il pagamento spettante agli autori.

    Uno svantaggio del sistema è il ritardo nei pagamenti: possono trascorrere 9-12 mesi dalla trasmissione prima che il compenso venga accreditato al compositore.


    Altre Fonti di Reddito nel Sync

    Oltre agli upfront fees e alle performance royalties, esistono altre modalità di guadagno nel settore della sincronizzazione musicale.

    1. Demo Fees (Compensi per Demo)

    Quando un compositore partecipa a un lavoro su specifica (spec work), potrebbe ricevere un demo fee. Questo compenso, che generalmente varia tra 250 e 500 dollari, viene pagato per incentivare la produzione di una composizione personalizzata per un progetto.

    Nota bene: non tutti i lavori su specifica prevedono un demo fee. Inoltre, le case di produzione possono ricevere compensi più alti e suddividerli tra più compositori per avere più opzioni da proporre ai clienti. Ad esempio, se un cliente offre 2.500 dollari per le demo di una campagna pubblicitaria, una casa di produzione potrebbe suddividere tale importo tra 5 compositori, pagando loro 500 dollari ciascuno.


    2. Sync Advances (Anticipi per la Produzione di Album)

    Alcune sync libraries o case di produzione offrono ai compositori un anticipo per la creazione di album tematici destinati alla sincronizzazione. L’importo dell’anticipo varia a seconda del contratto e può essere:

    • Recuperabile: l’anticipo viene dedotto dai futuri guadagni del compositore.
    • Non recuperabile: il pagamento è garantito indipendentemente dalle future licenze.

    Sebbene si parli di anticipo, il pagamento avviene solitamente a completamento del progetto, non in fase iniziale.


    3. Upfront (Buyout) Fees

    Un’altra forma di compenso anticipato è il buyout fee, ovvero una somma pagata per la cessione totale dei diritti su una composizione. Questo tipo di contratto viene spesso utilizzato da:

    • Librerie musicali che vogliono integrare nuove tracce nel proprio catalogo.
    • Case di produzione che necessitano di musica esclusiva per programmi TV o film.
    • Reti televisive che commissionano brani per i loro show.

    A differenza dell’anticipo per sync, il buyout fee non prevede royalties future, poiché i diritti vengono trasferiti completamente all’acquirente.

  • Music and Artificial Intelligence…What’s Wrong?

    Music and artificial intelligence… what a combination! You know, I’ve done countless talks and interviews on this topic over the past two or three years, and every time, I’ve changed my mind. Because with the speed at which everything is evolving, you barely have time to form an opinion before you have to rethink it! It’s like… well, like being at a restaurant and ordering a plate of pasta, and when the waiter arrives, he says, “Oh, sorry, we’ve changed the menu. Now we’ll bring you a pizza with lasagna inside.” And you say, “But excuse me, I wanted pasta!” And he replies, “But it’s the same, isn’t it? It just has cheese in it now.” And you’re left sitting there, confused, wondering if what you’re eating is really food or a lab experiment.

    At first, I used to say, “No, artificial intelligence will never replace composers and musicians. Just listen to how basic the results are!” Then I reconsidered, thinking, “Well, yes, it’s good at imitating, but it lacks quality, it lacks originality.” And now? Now I’ve come to terms with it, but… there’s a catch. And maybe I’ve figured out what it is.

    The issue is that artificial intelligence is like an artist who has studied too much—a bit like the guy who starts playing the piano only after reading the manual, but without ever truly feeling the music. Yet, when you “train” it well, as we say in the music world, well, holy smokes, it starts producing results that… damn, they’re even good! But there’s always that little detail, that pinch of “human” that’s missing. It’s like having a perfect orchestra but without the conductor who knows when to pause, when to improvise, when to add that touch of madness.

    Do you know what Suno is? It’s a super fun app that lets you create a song in an instant. You tell it what kind of track you want, and voilà—it produces everything: instrumental, vocals, lyrics, arrangement, mastering, all with a result that, if it weren’t morally questionable, would be almost impressive. You can make a love ballad or a dance track without lifting a finger. Or maybe just one finger, to press “Create.” If you don’t know it, you should try it out, form your own opinion, and maybe even scare yourself a little. Sure, the result is good, but it’s not quite the same if you’re a true musician, with heart and passion for every note. But that’s not even what I want to talk about—it’s another statement that makes my skin crawl.

    The CEO of Suno, Mikey Shulman, said, “Making music isn’t really enjoyable now. It takes a lot of time, a lot of practice, and you need to become very skilled with an instrument or production software,” Shulman explained. “And I think most people don’t enjoy most of the time they spend making music.” It sounds like the complaint of a frustrated and failed aspiring musician who, after trying to play guitar for five minutes, realizes that to become good, you need to study and that you aren’t born knowing how. But, ultimately, it’s the frustration of the new generations who watch short videos on social media of people doing phenomenal things, without understanding that behind those 15 seconds of performance are years of study, failures, sweat, and sacrifice.

    Now, if I were to take this statement and adapt it to relationships, imagine someone saying, “Relationships have become too complicated. You no longer need to spend years getting to know someone, struggling to find the right balance. Now you can just say what you want, and the other person will give you exactly what you’re looking for, no problem.” That phrase, like the CEO’s, is not just a trivialization of what truly matters but a mockery of everything that makes relationships—and music—meaningful. There is always a need for effort, hard work, and sacrifices to create something of value.

    After all, making music is no longer like it used to be, just as relationships aren’t what they once were. Once upon a time, love was simple: you met someone, probably in a local diner, talked about your favorite novels—Proust, if you wanted to be sophisticated, Hemingway, if you wanted to seem masculine—and before you knew it, you were married and arguing over who should sleep on the left side of the bed. Romantic efficiency! Now? Relationships are like producing a symphony with software you’ve never used before: time-consuming, emotionally costly, and often requiring technical support.

    Think about it: Shulman says, “It takes a lot of practice, a lot of time, and you have to be really good.” Doesn’t that perfectly describe a modern relationship? It’s no longer about meeting someone who laughs at your jokes and tolerates your mother; it’s about compatibility algorithms, attachment styles, and, for heaven’s sake, emotional availability. The work required is immense. First of all, you have to know yourself. And that’s already a full-time job, and once you get there (spoiler: you never fully get there), you also have to “communicate.” Like an IT technician trying to troubleshoot a relationship that won’t start properly.

    Oh, and let’s not forget another parallel: perfection. Shulman talks about needing to be “really good” with your instrument or software. Relationships now demand impeccability. You can’t have an off day. You can’t simply say, “I’m too tired to care about the drama of your third cousin’s wedding.” No! You must participate. You must be emotionally present, supportive, intellectually stimulating, and at least marginally attractive—every single day!

    Maybe we’ve lost the spontaneous joy of making a mess. Love, like music, was never meant to be perfect. It was meant to be noisy, chaotic, sometimes off-key. So let’s stop producing relationships as if they were conceptual albums and go back to humming our feelings, even if we’re out of tune. Who knows? The mistakes might just be the best part.

    And yet, we’re expected to believe that the future lies entirely in a click. No more sweat, no more mistakes, no more “let’s go back to this part” after weeks of rehearsals. Oh, how convenient. But it’s also a little creepy, isn’t it? It’s like being told that the only thing that matters is the surface, efficiency, performance. And all that remains is the sound, but not the music.

    Yet the truth is that the beauty of music—and, more broadly, of art and life—is exactly that: the time you invest, the winding path, the constant pursuit of perfection that will never arrive. Making music, or creating, doesn’t mean being perfect—it means being involved in a process that is halfway between inspiration and failure. It’s not just work; it’s an experience, an act of living. Just like relationships—the real ones, the complicated ones—are never perfect. There’s always something unresolved, a melody that doesn’t sound the way you’d like, but it belongs to you, it speaks about you in a way no algorithm could ever imitate.

    Music isn’t about perfection; it’s about passion and dedication. When you spend years mastering an instrument or writing a song, you’re not just trying to improve technically—you’re trying to understand yourself better, to explore yourself in a way you can’t achieve with an app. And that search, that failure, that constant improvement—that’s what makes music truly alive. Life is made of imperfect attempts, of wrong notes that turn into something unique, just like us.

    So yes, Suno is fun. But maybe the real beauty of music—and life—is that we’ll never be perfect. And you know what? That’s perfectly okay.

  • Musica e Ai…cosa c’è di male?

    Musica e intelligenza artificiale… che bel connubio! Sapete, ho fatto un sacco di interventi e interviste su questo argomento negli ultimi due o tre anni, e ogni volta ho cambiato idea. Perché, con la velocità con cui sta evolvendo tutto, non fate in tempo a farvi un’opinione che dovete subito ricredervi! È come se… beh, come se foste a un ristorante e ordinate un piatto di pasta, e quando arriva il cameriere vi dice ‘Ah, scusate, ma abbiamo cambiato il menù. Ora vi portiamo una pizza con dentro una lasagna.’ E voi dite ‘Ma scusate, io volevo la pasta!’ E lui vi risponde ‘Ma è lo stesso, no? È solo che ora ha il formaggio dentro.’ E voi siete lì, confusi, a chiedervi se quello che state mangiando è davvero cibo o se è un esperimento di laboratorio.”

    All’inizio dicevo: ‘No, l’intelligenza artificiale non sostituirà mai i compositori e i musicisti. Sentite che risultati banali!’. Poi mi sono ricreduto, pensando: ‘Beh, sì, è brava a imitare, ma manca di qualità, manca di originalità’. E ora? Ora sono arrivato alla resa, ma… c’è un però. E forse ho capito cosa è.

    Il problema è che l’intelligenza artificiale è come un artista che ha studiato troppo, un po’ come il ragazzo che si mette a suonare il piano solo dopo aver letto il manuale, ma senza mai sentire davvero la musica. Eppure, quando la ‘addestri’ bene, come diciamo noi nel mondo della musica, beh, porca zozza, inizia a tirar fuori dei risultati che… cavolo, sono anche buoni! Ma c’è sempre quel piccolo dettaglio, quel pizzico di ‘umano’ che manca. È come se aveste un’orchestra perfetta, ma senza il direttore che sa quando fare una pausa, quando improvvisare, quando dare quel tocco di follia.

    Sapete cos’è Suno? È un’app divertentissima che ti permette di creare una canzone in un batter d’occhio. Gli dici che tipo di brano vuoi, e voilà, ti produce tutto: strumentale, voce, testo, arrangiamento, mastering, il tutto con un risultato che, se non fosse moralmente discutibile, sarebbe quasi impressionante. Puoi fare una ballata d’amore o un pezzo dance senza muovere un dito. O forse con un dito, giusto quello per schiacciare “Crea.” Se non la conoscete dovete provarla e farvi una idea e forse spaventarvi. Certo, il risultato è buono, ma non è proprio il massimo se sei un musicista vero, con il cuore e la passione per ogni nota. Ma non è di questo che voglio parlare, è di un’altra dichiarazione che fa accapponare la pelle.

    Il CEO di Suno Mikey Shulman ha detto: “Non è davvero piacevole fare musica ora. Richiede molto tempo, molta pratica, bisogna diventare molto bravi con uno strumento o con un software di produzione,” ha spiegato Shulman. “E penso che la maggior parte delle persone non si diverta per la maggior parte del tempo che trascorre a fare musica.” Sembra il lamento di un aspirante musicista frustrato e fallito che, dopo aver provato cinque minuti a suonare la chitarra, si rende conto che per diventare bravi occorre studiare e che non si nasce imparati. Ma, del resto, è la frustrazione delle nuove generazioni che vedono video cortissimi sui social di gente che fa cose fenomenali, senza capire che dietro quei 15 secondi di performance ci sono anni di studio, fallimenti, sudore e sacrifici.

    Ora, se dovessi prendere questa affermazione e adattarla a una relazione, immaginate che qualcuno dica: “Le relazioni sono diventate troppo complicate. Non c’è più bisogno di passare anni a conoscere qualcuno, a lottare per trovare il giusto equilibrio. Ora puoi semplicemente dire cosa vuoi e l’altro ti darà esattamente quello che cerchi, senza problemi.” Ecco, quella frase, come quella del CEO, non è solo una banalizzazione di ciò che veramente conta, ma una presa in giro di tutto ciò che rende le relazioni—e la musica—significative. C’è sempre bisogno di impegno, di sforzi, di sacrifici per creare qualcosa che abbia valore.

    Del resto fare musica non è più come una volta, proprio come le relazioni non sono più quelle di una volta. Una volta, l’amore era semplice: incontravi qualcuno, probabilmente in una tavola calda di quartiere, parlavate dei vostri romanzi preferiti—Proust, se volevi fare il sofisticato, Hemingway, se volevi sembrare virile—e, prima che te ne accorgessi, eri sposato e litigavi su chi dovesse dormire dal lato sinistro del letto. Efficienza romantica! Ora? Le relazioni sono come produrre una sinfonia con un software che non hai mai usato prima: dispendiose in termini di tempo, emotivamente costose e, spesso, con necessità di assistenza tecnica.

    Pensateci: Shulman dice, “Richiede molta pratica, molto tempo, e devi essere davvero bravo.” Non descrive forse alla perfezione una relazione moderna? Non si tratta più di incontrare qualcuno che ride alle tue battute e sopporta tua madre; si tratta di algoritmi di compatibilità, stili di attaccamento e, per l’amor del cielo, disponibilità emotiva. Il lavoro richiesto è immane. Prima di tutto, devi conoscere te stesso. E questo è già un lavoro a tempo pieno, e una volta che ci sei arrivato (spoiler: non ci arrivi mai), devi anche “comunicare.” Come un tecnico IT che cerca di risolvere una relazione che non si avvia correttamente.

    Ah, e non dimentichiamoci un altro parallelo: la perfezione. Shulman parla di dover essere “davvero bravo” con il tuo strumento o software. Le relazioni ora richiedono impeccabilità. Non puoi avere una giornata no. Non puoi semplicemente dire: “Sono troppo stanco per interessarmi al dramma del matrimonio di tua cugina di terzo grado.” No! Devi partecipare. Devi essere emotivamente presente, di supporto, intellettualmente stimolante e almeno marginalmente attraente—ogni singolo giorno!

    Forse abbiamo perso la gioia spontanea di fare casino. L’amore, come la musica, non è mai stato pensato per essere perfetto. Doveva essere rumoroso, caotico, a volte stonato. Allora smettiamola di produrre relazioni come se fossero album concettuali e torniamo a canticchiare i nostri sentimenti, anche se siamo fuori tono. Chissà? Gli errori potrebbero essere proprio la parte migliore.

    E invece si vorrebbe pretendere che il futuro sia tutto lì, in un clic. Non più sudore, non più errori, niente più “ritorniamo a questo passaggio” dopo settimane di prove. Oh, quanto è comodo. Ma è anche un po’ inquietante, no? È come se ci stessero dicendo che l’unica cosa che conta è la superficie, l’efficienza, la prestazione. E tutto ciò che rimane è il suono, ma non la musica.

    Eppure, la verità è che la bellezza della musica—e, più in generale, dell’arte e della vita—è proprio quella: è il tempo che ci metti, il percorso tortuoso, la costante ricerca di perfezione che non arriverà mai. Fare musica, o creare, non significa essere perfetti, significa essere coinvolti in un processo che è a metà strada tra l’ispirazione e il fallimento Non è solo un lavoro, è un’esperienza, un atto di vita. Proprio come le relazioni—quelle vere, quelle complicate—non sono mai perfette. C’è sempre qualcosa di irrisolto, una melodia che non suona come vorresti, ma che ti appartiene, che parla di te in un modo che nessun algoritmo potrà mai imitare.

    La musica non è una questione di perfezione, è una questione di passione, di dedizione. Quando passi anni a perfezionare uno strumento o a scrivere una canzone, non stai solo cercando di migliorare tecnicamente, ma stai cercando di capirti meglio, di esplorare te stesso in un modo che non puoi ottenere con un’app. E quella ricerca, quel fallimento, quel miglioramento costante—è tutto ciò che fa sì che la musica sia davvero viva. La vita è fatta di tentativi imperfetti, di note sbagliate che si trasformano in qualcosa di unico, proprio come noi.

    Quindi sì, Suno è divertente. Ma forse la vera bellezza della musica—e della vita—è che non saremo mai perfetti. E, sai una cosa? Va benissimo così.

  • Educare al Bello, tra Musica e Cartoni

    Educare i bambini al bello è un atto di grande responsabilità e lungimiranza, che getta le basi per una società culturalmente e esteticamente più consapevole. Nei primi anni di vita, i bambini sono particolarmente sensibili agli stimoli che ricevono, anche se non hanno ancora gli strumenti per discernere consapevolmente ciò che è autentico e significativo da ciò che è superficiale. Questa plasticità della loro mente rappresenta un’opportunità unica per genitori, educatori e produttori culturali di offrire esperienze che nutrano il loro senso estetico e la loro sensibilità.

    Prendiamo la musica, per esempio. Ai bambini piccoli non importa se una melodia è prodotta da strumenti digitali privi di calore o suonata da veri musicisti su strumenti acustici. Tuttavia, ciò che ascoltano non è privo di conseguenze: le canzoncine banali, fatte apposta per attrarre con ritmi ripetitivi e suoni artificiali, abituano l’orecchio a una semplicità piatta e sterile. Al contrario, esporli a musiche di qualità, anche se adattate alle loro capacità di comprensione, consente loro di assorbire la profondità e la ricchezza sonora che solo composizioni autentiche e strumenti veri possono offrire. La musica vera non solo intrattiene, ma emoziona e forma, gettando le basi per un gusto musicale più raffinato e maturo.

    Un discorso analogo si applica ai cartoni animati. Nell’era del digitale, il 3D e le animazioni computerizzate dominano il panorama dell’intrattenimento infantile, spesso perché sono più veloci da produrre e possono stupire con effetti spettacolari. Tuttavia, i bambini non hanno un bisogno innato di tecnologie avanzate. Possono essere altrettanto affascinati da un cartone animato disegnato a mano, in 2D, che porta con sé l’impronta autentica dell’artista. L’arte manuale comunica qualcosa di profondo: il valore del lavoro, l’unicità di ogni tratto, la passione di chi crea. Questi elementi non solo offrono un’esperienza estetica più ricca, ma trasmettono anche valori che resteranno nel tempo.

    Spesso, i genitori giustificano scelte poco curate con la frase: “A loro piace”. Ma se adottassimo lo stesso criterio nell’alimentazione, finiremmo per nutrire i nostri figli solo di junk food e dolciumi, perché è ciò che preferiscono istintivamente. Come per il cibo, anche il gusto estetico non va semplicemente assecondato, ma educato. I bambini sono naturalmente attratti da ciò che è ipercolorato, fluorescente e immediato – una caratteristica comune a molti prodotti audiovisivi e alimentari destinati all’infanzia. Tuttavia, offrire loro stimoli più raffinati, che richiedono un piccolo sforzo di attenzione e di adattamento, li aiuterà a sviluppare un senso del bello più profondo e duraturo.

    L’impegno di educare al bello non riguarda solo i genitori, ma anche gli insegnanti e i produttori culturali. Chi crea contenuti per i bambini dovrebbe chiedersi che tipo di impatto le proprie opere avranno sui futuri adulti. Un cartone animato non diventa automaticamente migliore perché realizzato in 3D o con tecnologie avanzate. Al contrario, è la qualità della storia, la cura nei dettagli e l’amore con cui viene creato a determinarne il valore e la capacità di lasciare un’impronta positiva nel tempo. I contenuti pensati per l’infanzia non devono solo intrattenere, ma anche formare, offrendo ai bambini la possibilità di crescere con uno sguardo aperto alla bellezza autentica.

    In definitiva, educare al bello significa offrire ai bambini le basi per apprezzare ciò che è autentico, profondo e significativo. Non è una questione di estetica fine a sé stessa, ma di coltivare una sensibilità che li accompagnerà per tutta la vita. Forse per noi adulti richiede un piccolo sacrificio in più, che si tratti di scegliere musica di qualità o di proporre cartoni animati più curati. Ma questo sforzo può fare una grande differenza: i bambini di oggi saranno gli adulti di domani, e ciò che imparano ora influenzerà il futuro di tutti. Non perdiamo questa occasione: educare al bello è un atto d’amore verso i nostri figli e verso la società che costruiremo insieme.

  • “Spotify: Where Art Goes to Die Conveniently”


    Ah, Spotify. The name sounds harmless, doesn’t it? “Spotify.” It seems like a place where you’d go for yoga or spiritual enlightenment. But no! It’s evil. It’s Satan streaming in high (!?) quality. Why am I so mad at Spotify? Because it’s the death of music. It’s like the McDonald’s of music: everything is accessible, but nothing has any real flavor.

    When I was young… yes, I know, everyone starts with “when I was young,” but hear me out! When I was young, buying a record was a sacred ritual. You’d go to the store, spend hours flipping through covers, and inhale that smell of vinyl and dust—a smell that told you: “This is art, not an algorithm.” Then you’d carry the record home with the same care you’d use to transport a heart for a transplant. You’d place it on the turntable, lower the needle, and… magic!

    Now? Now people discover music by pressing a button while ordering a cappuccino at the café. I mean, how can you even begin to grasp Leonard Cohen while sipping an oat milk latte? That’s not music; it’s background noise for your watered-down existential crises.

    And then there are the algorithms. The algorithms! Do you have any idea how sneaky they are? They tell you what to listen to. “If you like Bob Dylan, you might enjoy this guy playing ukulele in a Norwegian basement.” But who are you, Spotify, to tell me what to listen to? It’s like a robot coming up to me and saying, “I know everything about you.” No, you don’t! You don’t know that I like listening to Carmen while eating cornflakes at 3 a.m.

    And then the ultimate evil: playlists. Oh, the playlists! “Relax,” “Study,” “Workout.” But music isn’t a deodorant with different scents for every time of day! It’s an art form, not a fast-food menu. I want to listen to Beethoven during a panic attack, not a playlist called “Calm Vibes.”

    And let’s not even talk about the musicians. Do you know how much they earn per stream on Spotify? A penny. A single penny! When I heard that, I thought, “Okay, this must be a joke.” But no, it’s real. Beethoven would earn more playing piano in a bar full of drunks than on Spotify. And then people complain that classical music is dying. Of course, it’s dying! How can it compete with the techno remix of a meowing cat?

    Spotify has taken music—something that’s passion, effort, tears, sweat—and turned it into an all-you-can-eat buffet of mediocrity. And us? We’re complicit. Because it’s convenient. It’s all there, instantly, no effort required. But do you know what happens when everything becomes easy? We become lazy. And when we become lazy, we stop seeking beauty.

    And if that weren’t enough, here’s the latest masterpiece: fake songs. Yes, you heard that right: fake. Tracks created specifically to fill playlists, with no real artist behind them. No, I’m not kidding. They’ve found a way to monetize nothingness. It’s like selling canned air, but with a little reverb and a title like “Ocean Serenity.”

    They create tracks made up of a few generic chords—a melody that might as well have been played by some guy with a guitar at a highway rest stop at 3 a.m.—and slap them into a playlist called “Focus Time” or “Cozy Winter Vibes.” And people listen to it, unaware that it’s not even real music. It’s synthetic music. It’s like eating a veggie burger and thinking it’s Argentine filet mignon.

    And the “artists” behind these tracks… what artists? They don’t exist! They’re pseudonyms invented by Spotify or third-party companies to save on royalties. It’s an economy of emptiness, an endless loop of deception. They’ve taken the idea of the “musician” and reduced it to a computer-generated avatar. No one suffers to write these songs. No one pours their heart out. No one lives the inner turmoil that creates a masterpiece. It’s all just copy-paste emotions.

    The best part—if we can call it that—is that this is all designed to fool us. Because the more Spotify fills playlists with fake music, the less they pay real artists. It’s a system built to squeeze maximum profit out of every note. They’ve literally industrialized the absence of inspiration.

    And you might say: “But who notices?” Of course, no one notices! Because these tracks aren’t meant to be memorable; they’re just there, in the background, like elevator music in an empty shopping mall. Their only purpose is to keep the stream running, like a car left idling at a red light.

    So now, not only is Spotify the McDonald’s of music, it’s also like a Truman Show for our ears. It makes us believe we’re listening to art when, in reality, we’re just listening to an algorithm softly whispering: “Don’t think, don’t search, just keep pressing play.”

    Do you know what really worries me? That one day we’ll get used to all this. That we’ll no longer be able to tell the difference between a real song and a fake one. And at that point, music as we know it—the real kind, the kind that tears your heart out and flips it upside down—will truly be dead.

    And me? I keep using it, of course. It’s convenient. But I hate it. I hate it with the same passion I love… Oh look, my playlist “Woody’s Neurotic Jazz Favorites” just ended. Time to find something else.

  • A whole life…just 20 cm away.

    You know, I write music for films. It’s a great job, sure, but also a bit of a trap. Because when you compose music for images, you’re always trying to make someone cry, or feel powerful, or romantic… basically, you’re a kind of professional emotional manipulator. Only, you do it with notes instead of lies, which is at least more elegant.

    But lately, I’ve been asking myself: why do some pieces of music move me so much, while others just make me want to change the channel? And I realized that the secret lies in something very simple: breathing. Yes, human breath. Not the kind you feel on your neck during rush hour on the subway—that’s just annoying. I’m talking about the breath you hear in music.

    Take an orchestra, for example. When you listen to a symphony, you’re not just hearing violins, flutes, or timpani. No, you’re also hearing the violinist inhaling before they play, the pianist shifting on their bench, or maybe the conductor huffing because the trombone came in late. It’s in those little noises that you feel real life, the human presence. That, my friends, is the soul of music.

    And do you know where this magic happens? In the eight inches between the musician and the microphone. Eight inches! That’s the difference between a sound that’s alive and one that feels like it came out of a 3D printer. In those eight inches, there’s breath, sweat, calluses on fingers. There’s life.

    That’s why I love acoustic instruments. It’s not snobbery, I promise. It’s because when you hear a cello play, you can almost see the person behind it. But when you listen to a synthesizer… I mean, who’s behind it? A programmer? An algorithm? It’s like trying to find romance in an automated WhatsApp message: “Hi! You’re still my number one contact!” No, thanks.

    Don’t get me wrong—I use virtual instruments too. They’re convenient, practical, and let you create an entire orchestra without having to pay 80 people (who would also want a lunch break, those ingrates). But the thing is, digital instruments, no matter how perfect, don’t breathe. They don’t make mistakes. And you know what makes a musician human? Mistakes! That note that wasn’t quite perfect but feels real, alive.

    The problem with digital music is that it’s too perfect. And perfection, let’s be honest, is a bit boring. Would you ever date someone perfect? Someone who doesn’t sweat, never makes bad jokes, never leaves socks lying around? No, because after two weeks, you’d be like, “This isn’t a person; it’s a machine!”

    Music is the same for me. I want to hear the human breath, those eight inches between the mouth and the microphone. Because in that space is everything: life, soul, heart.

    It’s the same with animated films. I love 2D, hand-drawn animations. Why? Because you can see the artist’s hand. You can see the pencil strokes, the traces of a human gesture, the tiny imperfections. When you watch a 2D film, it’s like seeing the person who made every single drawing, frame by frame.

    But when you watch a computer-generated film… yes, okay, they’re spectacular! But everything is too perfect. There’s no hand. There’s no gesture. It’s like a dish cooked by a robot: it fills you up, but it doesn’t warm your heart. Hand-drawn animation has life; it’s the artist saying to you, “Hey, look what I made for you.”

    So yes, technology, AI, virtual instruments… welcome, but stay in your place. Because at the end of the day, real music is made by people, not bits. It’s made of that breath that makes you think, “There’s someone, somewhere, playing for me.” And that, my friends, is the most beautiful sound in the world.

  • La vita…in 20 CM

    Sapete, io scrivo musica per film. È un bel lavoro, sì, ma anche un po’ una trappola. Perché, quando componi musica per immagini, sei sempre lì a cercare di far piangere qualcuno, o di farlo sentire potente, o romantico… insomma, sei una specie di manipolatore emotivo professionista. Solo che lo fai con le note invece che con le bugie, che almeno è più elegante.

    Ma ultimamente mi sono chiesto: perché alcune musiche mi toccano così tanto, mentre altre mi fanno venire voglia di cambiare canale? E ho capito che il segreto è tutto in una cosa molto semplice: il respiro. Esatto, il respiro umano. Non quello che senti sul collo quando sei in metro nell’ora di punta, quello è fastidioso. Parlo di quello che senti nella musica.

    Prendete un’orchestra. Quando ascolti una sinfonia, non senti solo i violini, i flauti, i timpani. No, senti anche il violinista che inspira prima di suonare, il pianista che si muove sul seggiolino, o magari il direttore d’orchestra che sbuffa perché il trombone è entrato in ritardo. È in quei piccoli rumori che senti la vita vera, la presenza umana. Quella roba lì, ragazzi, è l’anima della musica.

    E sapete dov’è che succede questa magia? Nei venti centimetri tra il musicista e il microfono. Venti centimetri! È la distanza che fa la differenza tra un suono vivo e un suono che sembra uscito da una stampante 3D. In quei venti centimetri ci sono il respiro, il sudore, i calli sulle dita. C’è la vita.

    Ecco perché io amo gli strumenti acustici. Non è snobismo, lo giuro. È che quando senti un violoncello suonare, puoi quasi vedere la persona dietro. Ma quando ascolti un sintetizzatore… cioè, chi c’è dietro? Un programmatore? Un algoritmo? È come cercare il romanticismo in un messaggio automatico di WhatsApp: “Ciao! Sei ancora al primo posto nei miei contatti preferiti!” No, grazie.

    E non fraintendetemi: uso anche io strumenti virtuali, eh. Sono comodi, pratici, e ti permettono di fare un’orchestra intera senza dover pagare 80 persone (che poi vorrebbero anche la pausa pranzo, questi ingrati). Ma il punto è che gli strumenti digitali, per quanto perfetti, non respirano. Non sbagliano. E sapete cosa rende un musicista umano? Gli sbagli! Quella nota che non era proprio precisa, ma che ha qualcosa di vero, di vivo.

    Il problema con la musica digitale è che è troppo perfetta. E la perfezione, diciamocelo, è un po’ noiosa. Voi vi fidanzereste mai con qualcuno perfetto? Uno che non suda, non fa battute sbagliate, non lascia i calzini in giro? No, perché dopo due settimane direste: “Ma questa è una macchina, non una persona!”

    Ecco, per me la musica è uguale. Voglio sentire il fiato dell’essere umano, quei venti centimetri tra la bocca e il microfono. Perché lì c’è tutto: la vita, l’anima, il cuore.

    Che poi è la stessa cosa per il cinema d’animazione. Io adoro i film animati in 2D, disegnati a mano. Perché? Perché lì vedi la mano dell’artista. Vedi il tratto della matita, i segni del gesto umano, le piccole imperfezioni. Quando guardi un film in 2D, è come se stessi vedendo la persona che ha fatto ogni singolo disegno, fotogramma dopo fotogramma.

    Ma quando guardi un film in computer graphic… sì, ok, sono spettacolari, eh! Però è tutto troppo perfetto. Non c’è la mano. Non c’è il gesto. È come un piatto cucinato con un robot: ti sazia, ma non ti scalda il cuore. Nei disegni a mano c’è vita, c’è l’artista che ti dice: “Ehi, guarda cosa ho fatto per te.”

    Quindi sì, tecnologia, AI, strumenti virtuali… benvenuti, ma state al vostro posto. Perché alla fine, la musica vera è fatta di persone, non di bit. È fatta di quel respiro che ti fa pensare: “C’è qualcuno, da qualche parte, che sta suonando per me.” E quello, amici miei, è il suono più bello del mondo.

  • Spotify…il male…

    Ah, Spotify. Il nome suona innocuo, no? “Spotify”. Sembra un posto dove vai a fare yoga o a trovare illuminazione spirituale. E invece no! È il male. È Satana in streaming ad alta (!?) qualità. Ma perché ce l’ho con Spotify? Perché è la fine della musica. È come il McDonald’s della musica: tutto è accessibile, ma niente ha un vero sapore.

    Quando ero giovane… sì, lo so, tutti iniziano con “quando ero giovane”, ma lasciatemi spiegare! Quando ero giovane, comprare un disco era un rito sacro. Si andava al negozio, si passavano ore a sfogliare le copertine, si annusava quell’odore di vinile e polvere – un odore che ti diceva: “Questa è arte, non un algoritmo”. Poi portavi il disco a casa con la stessa cura con cui trasporteresti un cuore per un trapianto. Lo mettevi sul giradischi, abbassavi la puntina, e… magia!

    Adesso? Adesso la gente scopre la musica premendo un pulsante mentre ordina un cappuccino al bar. Voglio dire, come fai a capire Leonard Cohen mentre sorseggi un latte macchiato con latte di avena? Non è musica, è rumore di sottofondo per le tue crisi esistenziali annacquate.

    E poi gli algoritmi. Gli algoritmi! Avete idea di quanto siano subdoli? Ti dicono cosa ascoltare. “Se ti piace Bob Dylan, potresti apprezzare questo tizio che suona l’ukulele in una cantina in Norvegia”. Ma chi sei tu, Spotify, per dirmi cosa ascoltare? È come se un robot venisse da me e dicesse: “So tutto di te”. No, non sai niente! Non sai che mi piace ascoltare la Carmen mentre mangio cornflakes alle tre di notte.

    E poi il male assoluto: le playlist. Ah, le playlist! “Relax”, “Study”, “Workout”. Ma la musica non è un deodorante con profumi diversi per ogni momento della giornata! È una forma d’arte, non un menù da fast food. Voglio ascoltare Beethoven durante un attacco di panico, non una playlist chiamata “Calm Vibes”.

    E non parliamo dei musicisti. Sapete quanto guadagnano per ogni stream su Spotify? Un centesimo. Un centesimo! Quando ho sentito questa cifra ho pensato: “Ok, è uno scherzo”. Ma no, è vero. Beethoven guadagnerebbe più suonando il piano in un bar per ubriaconi che su Spotify. E poi si lamentano che la musica classica sta morendo. Certo che sta morendo! Non si può competere con il remix techno di un gatto che miagola.

    Spotify ha preso la musica – che è passione, fatica, lacrime, sudore – e l’ha trasformata in un buffet all-you-can-eat di mediocrità. E noi? Noi ne siamo complici. Perché è comodo. È tutto lì, subito, senza fatica. Ma sapete cosa succede quando tutto è facile? Diventiamo pigri. E quando diventiamo pigri, smettiamo di cercare la bellezza.

    E se non bastasse questo, ecco l’ultima genialata: le canzoni finte. Sì, avete capito bene: false. Tracce create appositamente per riempire le playlist, senza un artista vero dietro. No, non sto scherzando. Hanno trovato un modo per monetizzare anche il nulla. È come venderti l’aria in scatola, ma con un po’ di riverbero e un titolo come “Ocean Serenity.”

    Creano brani composti da qualche accordo generico – una melodia che potrebbe essere stata suonata da un tizio con la chitarra in un autogrill alle tre di notte – e la mettono in una playlist chiamata “Focus Time” o “Cozy Winter Vibes.” E la gente la ascolta, inconsapevole del fatto che non è nemmeno musica vera. È musica sintetica. È come mangiare un hamburger vegetale e pensare che sia filetto di manzo argentino.

    E poi gli “artisti” dietro queste tracce… ma quali artisti? Non esistono! Sono pseudonimi inventati da Spotify o da aziende terze per risparmiare sui diritti d’autore. È un’economia del vuoto, una truffa in loop infinito. Hanno preso l’idea del “musicista” e l’hanno ridotta a un avatar generato al computer. Nessuno soffre per scrivere queste canzoni. Nessuno si strugge. Nessuno vive il dramma interiore che produce un capolavoro. È tutto un copia e incolla emotivo.

    La parte migliore – se possiamo chiamarla così – è che tutto questo serve per ingannare noi. Perché più Spotify riempie le playlist di musica fasulla, meno paga gli artisti veri. È un sistema progettato per spremere il massimo profitto da ogni nota. Hanno letteralmente industrializzato l’assenza di ispirazione.

    E voi direte: “Ma chi se ne accorge?” Certo, nessuno se ne accorge! Perché queste tracce non devono essere memorabili, devono solo stare lì, sullo sfondo, come la musica d’ascensore in un centro commerciale deserto. Il loro unico scopo è mantenere attivo lo streaming, come un’auto lasciata accesa al semaforo.

    Quindi ora non solo Spotify è il McDonald’s della musica, è anche una specie di Truman Show per le nostre orecchie. Ci fa vivere in un mondo dove crediamo di ascoltare arte, ma in realtà ascoltiamo solo un algoritmo che ci sussurra dolcemente: “Non pensare, non cercare, continua a fare play.”

    Sapete cosa mi preoccupa davvero? Che un giorno ci abitueremo a tutto questo. Che non saremo più capaci di distinguere una canzone vera da una finta. E a quel punto, la musica come la conosciamo – quella vera, quella che ti strappa il cuore e te lo rimette al contrario – sarà morta davvero.

    E io? Io continuo a usarlo. Certo, è comodo. Ma lo odio. Lo odio con la stessa passione con cui amo… Oh guarda, la mia playlist “Woody’s Neurotic Jazz Favorites” è finita. Devo trovare qualcos’altro.

  • L’internazionalizzazione dei compositori italiani: sfide e opportunità nel panorama cinematografico globale

    Introduzione

    L’Italia vanta una lunga e prestigiosa tradizione nella musica per il cinema, con figure iconiche come Ennio Morricone e Nino Rota che hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema internazionale. Tuttavia, l’attuale panorama evidenzia una presenza limitata di compositori italiani nei principali premi e produzioni cinematografiche internazionali. Perché, nonostante il talento e l’eredità culturale, i compositori italiani sembrano faticare a guadagnarsi una posizione di rilievo all’estero? Questo articolo esplora le ragioni di questa dinamica, esaminando i fattori culturali, economici e strutturali che la influenzano, e propone strategie per migliorare l’internazionalizzazione della musica per il cinema made in Italy.

    La tradizione italiana e le sfide attuali

    L’Italia ha una storia di eccellenza nella musica per film, con Oscar vinti da artisti del calibro di Nicola Piovani (“La vita è bella”) ed Ennio Morricone (“The Hateful Eight”). Tuttavia, questi successi sembrano essere l’eccezione piuttosto che la regola. Una delle prime difficoltà riguarda il rapporto dei compositori italiani con gli Academy Awards. I compositori italiani che raggiungono questi riconoscimenti lo fanno spesso attraverso due vie principali:

    1. Collaborazioni con film italiani nominati come Miglior Film Internazionale: Nicola Piovani ne è un esempio, avendo vinto grazie al successo globale de “La vita è bella”.
    2. Partecipazione a produzioni internazionali: Qui emergono nomi come Nino Rota e lo stesso Morricone, la cui fama è stata consolidata grazie a collaborazioni con registi stranieri come Francis Ford Coppola e Quentin Tarantino.

    Tuttavia, queste opportunità rimangono limitate. Esistono barriere culturali, burocratiche e di mercato che rendono difficile per i compositori italiani inserirsi nel panorama globale. Ad esempio, la tardiva distribuzione dei film italiani negli Stati Uniti spesso impedisce alle colonne sonore di essere eleggibili per i premi.

    Le barriere all’internazionalizzazione

    1. Approccio autoreferenziale e mercato interno

    Un elemento cruciale è l’orientamento dei compositori italiani verso il mercato nazionale. Molti di loro si concentrano esclusivamente su produzioni italiane, evitando di espandere il proprio raggio d’azione. Questa tendenza può essere attribuita a:

    • Una maggiore familiarità con il contesto locale.
    • Una percepita difficoltà nel confrontarsi con mercati internazionali più competitivi.
    2. Struttura delle coproduzioni europee

    Nel mercato europeo, le coproduzioni sono spesso regolate da contratti che privilegiano l’uso di maestranze locali, inclusi i compositori. Ad esempio, in una coproduzione italo-francese, è comune che il compositore venga selezionato dal partner francese. Spesso, nelle coproduzioni in cui è coinvolta l’Italia, il compositore appartiene a una delle nazioni coproduttrici e non è italiano. Questo approccio limita ulteriormente l’accesso dei compositori italiani a produzioni europee di ampia portata.

    3. Sostegno istituzionale insufficiente

    Nonostante la musica sia considerata uno degli elementi co-autoriali di un film, il supporto istituzionale per promuovere i compositori italiani all’estero appare inadeguato. Paesi come la Francia e la Germania investono significativamente nella promozione internazionale dei loro talenti artistici attraverso fondi pubblici e iniziative governative mirate.

    4. L’industria americana e il libero mercato

    Il mercato cinematografico americano, basato sul libero mercato, offre maggiori opportunità ai compositori italiani, ma richiede anche una forte capacità di networking e una presenza consolidata. Nonostante ciò, alcuni compositori riescono a inserirsi grazie al legame diretto con registi che apprezzano il loro lavoro.

    Un confronto tra Europa e Stati Uniti

    Il confronto tra il mercato europeo e quello americano evidenzia differenze sostanziali:

    • Europa: Predominio di coproduzioni, investimenti pubblici e libertà artistica, ma meno risorse economiche.
    • Stati Uniti: Sistema industriale orientato al profitto, con grandi investimenti privati e opportunità più diversificate per i compositori che riescono a entrare nel sistema.

    Proposte per migliorare la situazione

    Per favorire una maggiore internazionalizzazione dei compositori italiani, è necessario adottare un approccio strategico e coordinato:

    1. Promozione istituzionale Il Ministero della Cultura (MiC) e la Società Italiana degli Autori ed Editori (SIAE) dovrebbero sviluppare iniziative mirate per promuovere i compositori italiani all’estero, organizzando workshop, partecipazioni a festival internazionali e programmi di mentorship con professionisti del settore.
    2. Sviluppo delle competenze I compositori italiani devono investire nella propria formazione, migliorando le competenze linguistiche, il marketing personale e la capacità di lavorare in contesti internazionali. Collaborazioni con registi emergenti stranieri possono rappresentare un primo passo importante.
    3. Superamento delle barriere delle coproduzioni Sarebbe utile rivedere le regole delle coproduzioni europee per garantire una maggiore equità nella selezione dei compositori, favorendo la mobilità dei talenti tra i vari paesi.
    4. Sfruttare le opportunità offerte dalla rete Internet ha ridotto le distanze geografiche e offre la possibilità di collaborare a progetti internazionali anche da località remote. I compositori italiani dovrebbero sfruttare piattaforme online per promuovere il proprio lavoro e creare connessioni con registi e produttori stranieri.